Neruda

Più che un film su Neruda, un film a partire da Neruda: la Storia del Cile è un poliziesco dell’anima, un western innevato, un inseguimento infinito.

Guardando Neruda di Pablo Larraín si ha quasi la sensazione di un velo di seta, di una magica organza, di una carta velina posta direttamente sull’obiettivo: ogni immagine si fa creatura ectoplasmatica, ogni uomo, paesaggio, perfino ogni parola, sembra fatta della stessa consistenza di cui son fatti i sogni. Come un corpo d’inchiostro, di nervi e di carne, pesante e privo di grazia, Neruda è una massa neroniana di gentil grasso, un ventre parlante dal cuore d’oro. La poesia, forse, nasce dalla pancia, dai turbinii di vino sacro e dai bordelli di polpa amata. Scrivere è un gesto necessario ma banalissimo, perché somiglia così tanto a mangiare e a far l’amore. E’ una sfida demiurgica, perché crea uomini e mondi. E’ un gesto di riconoscimento, di perpetuo sdoppiamento, perché mette in atto una serie continua di doppi in cui ritrovarsi. In qualche modo, bisognerà pur rispondere a se stessi, far appello alla Storia per costituirsi in quanto uomini.

La scrittura non può che farsi scissione, lavorio continuo ed estenuante, separazione del cuore e delle membra, circoncisione dello stesso atto creativo. Neruda scrive per creare altri Neruda, fondando, in sé, il proprio stesso Neruda. Come se la scrittura fosse già, in nuce, il peccato di Narciso, la più grande penna che, col suo inchiostro, inventò se stesso come doppio, maledicendosi per l’eternità.

Il film più bello di Pablo Larraín è quello che utilizza il corpo-Neruda, l’immagine-Neruda, per farne una riflessione sull’etica della narrazione, sulla morale della penna, sul desiderio d’amore che incendia ogni spirito nobile. E’ come se, per tutto il film, Neruda mancasse a se stesso, cercasse nuove protesi, nuovi appigli, per poter lasciare ai posteri la sua identità differenziale.

E’ un film, questo, ambientato nelle retrovie mentali dello scrittore, dove le immagini sono come le pagine di un libro: scorrono via quali acqua in tempesta, mentre si ha il tempo di perdersi, ritrovarsi, immaginare e vedere tutti i film, tutti i volti, tutti i pensieri che formano, nel complesso, questo piccolo grande uomo, questo bellissimo, dolente paese che era, che è, il Cile. Il Cile di Larrain, in un modo non così differente rispetto ai film precendenti, riflette il viaggio all’interno della psiche scomposta di un uomo. Un Paese, d’altronde, è un’esistenza, la Storia un ricordo, il presente uno specchio, il futuro una profezia. Neruda potrebbe essere tutti i personaggi del film o potrebbe esserne uno solo: irriducibile a qualsiasi sintesi, lo scrittore è il dono ubiquo per eccellenza che mira all’elisir dell’immortalità. Presente assente della storia, spettro multiforme che si aggira per le strade, abita vuoti e speranze, attese e fughe senza fine. E’ capace di piangere e d’amare, mentre nasconde le proprie debolezze dietro alla voce del Poeta. Neruda è uomo e donna, comunista e detective, è tutto ed è nulla. E’ una parola, uno sguardo, una grande, pletorica recita, il semplice incontro di una notte. E così anche il cinema, tutto il cinema esploso in questo film, cambia faccia, genere e posizione: dal biopic frantumato, incastonato in una Storia che è un puzzle della mente, al poliziesco-noir che brilla dei colori di una volta fino al western innevato. E nell’ennesimo duello guardia e ladro, su tutti si erge l’ispettore Oscar Peluchonneau, il più grande, il più miserabile, il più buffo degli uomini, un po’ violento, un po’ coglione. E’ lui il personaggio secondario, colui che per tutta la vita aspetta di essere riconosciuto dal suo autore. Figura d’inchiostro, nata da un foglio bianco, che piange lacrime di sangue nei deserti innevati della mente altrui. E può continuare a vivere solo se nominato, solo se ricordato, solo se finalmente riconosciuto dal padre, dall’amico-nemico, dal suo unico vero amore (il film, del resto, è tutto nel dialogo straniante tra Peluchonneau e la donna amata da Neruda: dialogo centrale, che blocca il flusso e la durata, per farsi vera voce nel labirinto della Storia).

Autore: Samuele Sestieri
Pubblicato il 15/10/2016

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