Jackie

Larraín deflagra il biopic hollywoodiano con un film conflittuale ma di grande intensità, una lezione su come la verità si trasformi in Storia attraverso lo spettacolo.

Il volto contratto dallo shock, le mani che grattano sulla lamiera della macchina. Sembra una fuga, ma le dita in realtà stanno cercando di raccogliere quel che resta del capo di JFK, come briciole di pane finite sparse sulla tavola da raggranellare adesso con la mano. E’ forse il gesto umano più disperato e delicato di sempre quello intrapreso da Jacqueline Kennedy, specie quando torna a sedersi accanto al marito per appoggiarsene la testa sul grembo, le mani che cercano di tenere uniti i frammenti di un corpo esploso.

Ci troviamo di fronte alcune delle immagini più famose della storia mediale dell’uomo, tra le più viste, diffuse, rielaborate, studiate. Eppure mai nessuno era arrivato dove si spinge Pablo Larraín in Jackie, ricreare con la precisione fotografica di un primo piano il corpo morto di Kennedy, la porzione di cranio scoperchiata, il cervello esposto allo sguardo, alla camera. Per parlare di Jackie allora bisogna partire da qui, dalla scelta di Larraín di ricorrere ad un’inquadratura del genere, alla ricostruzione oggettiva dello sparo in un film che per il resto si focalizza integralmente sullo sguardo e l’esperienza di Jacqueline. Dove si colloca nel suo cinema un’immagine simile?

Già in Neruda il cinema di Larraín si è confrontato con il genere del biopic, un canone che il regista cileno lascia dissolversi in un gioco di mutazioni linguistiche il cui peso cinematografico va ben oltre la Storia. In Jackie l’operazione è ancor più complessa, perché Larraín qui non si confronta soltanto con i canoni del racconto biografico, ma, per la prima volta, con i più complessi stilemi della macchina hollywoodiana. Nato come film di Aronofsky con Rachel Weitz, Jackie è la prima produzione internazionale di Larraín, il primo contatto con il sistema hollywoodiano in un film dalla portata inedita per un regista come lui. Non si tratta più di trasformare dall’interno le logiche di un genere, qui il cinema di Larraín entra in contatto con elementi mai visti e sperimentati, a partire dalla sceneggiatura hollywoodiana su uno dei miti fondanti della cultura americana.

Solo tenendo presente questo campo d’azione possiamo spiegarci alcune scelte di linguaggio e messa in scena che contraddistinguono Jackie dal resto del suo cinema, a partire dall’inquadratura citata poco sopra. Perché Jackie è sicuramente un grande film sullo iato che separata la verità dalla Storia, e su come tale distanza possa essere colmata attraverso lo spettacolo, a partire da quello garantito dal mezzo televisivo. Tuttavia questo sviluppo tematico, così proprio e intimo al cinema di Larraín da riallacciarsi direttamente a No – I giorni dell’arcobaleno, si sviluppa in un confronto interno tra istinti autoriali e logiche di rappresentazione proprie del genere e di Hollywood. Questa contraddizione rende Jackie un vero e proprio terreno di scontro, un film di conflitto e contrasto nel quale la visione di Larraín sembra sia imporsi che venir meno nei confronti del contesto produttivo.

Il grande assunto di partenza del film – incentrare il racconto sui giorni successivi all’omicidio e soprattutto concentrarsi integralmente sull’esperienza e la voce di Jacqueline, sorta di comparsa nella processazione storica dell’evento – è antecedente all’arrivo di Larraín sul set, tuttavia è evidente come tale argomento possa toccare tematiche a lui care. Il personaggio di Jackie infatti permette al regista cileno di portare avanti il suo percorso di disamina morale della Storia e della sua rappresentazione, del suo racconto. Il film parte da un flashback molto classico – l’incontro voluto da Jacqueline con il giornalista di Life Theodore White, dal quale nascerà una delle interviste più famose della storia americana – sul quale si andranno ad incastrare diversi piani narrativi: ricordi, ricostruzioni di filmati d’epoca, racconto e confessione, frammenti disseminati in una progressione non lineare dal punto di vista temporale ma perfettamente scandita nella sua progressione concettuale: mostrare il farsi della Storia, il processo di elaborazione del lutto che diventa costruzione di un’eredità anzitutto mitica, racchiusa nel mitologema di Camelot e di re Artù che Jacqueline per prima in quella famosa intervista cucì addosso al corpo appena caduto del marito. Quel che ci racconta Larraín è il modo in cui in quei pochi giorni l’ex first lady fu costretta a passare dalla cognizione del dolore (assoluto e solitario come spesso è il potere) all’assunzione di responsabilità riguardo l’eredità storica di Kennedy.

Jackie ricostruisce tutte le tappe di questo percorso: il rifiuto da parte di Jacqueline di togliersi il vestito sporco e di pulirsi tutto il sangue di dosso; la necessità di mostrare i bambini che accompagnano il feretro del padre fuori dalla Casa Bianca; la lunghissima e pubblica marcia funebre per le strade di Washington ricalcata sui funerali di Lincoln; la consegna al giornalista White della metafora finale con la quale storicizzare e far entrare nel mito la presidenza di suo marito.

All’interno di questa storia conosciamo aspetti contradditori della personalità di Jacqueline , un’ambiziosa donna di carriera (così si definisce) lasciata in solitudine, una vedova che necessità di creare un rito nazionale all’interno del quale porsi al centro, non senza istinti puramente narcisistici, per quanto sconvolti e radicalizzati dal trauma del lutto. Pubblico e privato si mescolano così in un racconto che gioca con il concetto di verità applicata alla Storia, mentre gli schermi televisivi tutto inglobano in un appiattimento generalizzato e universale, una macchina che ingoia la realtà per trasformarla in feticcio. Questo perché Larraín è ben consapevole di come narrazioni in qualche modo artefatte, controllate, possano generale ripercussioni vere. Del resto tra la verità da una parte e la Storia dall’altra, dove si colloca la realtà? A vincere forse è ancora una volta la campagna con lo spot migliore, e quello di Jackie sul mondo di Camelot è certo il più accattivante e pacificatorio di tutti.

Torniamo quindi alla sequenza dell’omicidio, l’epitome più evidente di una serie di scelte stilistiche che complicano la ricezione di Jackie. Il film di Larraín infatti non si limita a deflagrare dall’interno i canoni della biografia hollywoodiana, ma intrattiene con essi una sfida fatta di colpi e risposte, una manipolazione che porta in certi momenti il film sul terreno di una forte leziosità, di un’invadenza drammatica a scapito dell’urgenza più feroce.

Le inquadrature del corpo di Kennedy potrebbero in tal senso apparire estranee alla griglia morale fin ora esercitata da Larraín, tuttavia il cranio divelto di JFK è un elemento estraneo che mette in azione un cortocircuito straniante. In un orizzonte comunicativo divorato dallo spettacolo, in una cultura americana nella quale storicizzarsi significa anzitutto trasformarsi in icona pop, un corpo martoriato come quello restituito dal film diventa, nella sua artificialità evidente, nel suo trucco esibito, il segno della carne che si fa mito attraverso il feticcio. E’ anzitutto per questa strada che entra nella Storia la figura di Kennedy, attraverso il suo appiattimento spettacolare, la sua resa artificiale, la sua precipitazione iconica. Il cerchio si apre e chiude così, dal vestito rosa di Jacqueline al sangue del marito, il tutto intrappolato dentro lo schermo televisivo della cultura americana, la stessa che Larraín cerca in un’operazione forse impossibile di far deflagrare dall’interno.

Autore: Matteo Berardini
Pubblicato il 07/09/2016

Articoli correlati

Ultimi della categoria