I magnifici sette

Nonostante lo script di Pizzolatto dissemini qualche spunto d’interesse, il remake di Fuqua si rivela un western classico senza particolari intuizioni, tanto godibile quanto biodegradabile.

Dei generi americani, vivi e defunti, il western è probabilmente il più codificato e definito nei suoi elementi, compresa l’ampia tradizione crepuscolare che ne ha riscritto e rovesciato i presupposti. Senza questa codificazione (e senza un pubblico addestrato e preparato a riceverla) non sarebbe stato possibile un film come I magnifici sette di John Sturges, apoteosi del mito che riflette su sé stesso in quanto, anzitutto, struttura ciclica. Ciascuno dei pistoleri di Sturges infatti incarnava una particolare modalità western e una certa declinazione della figura del cowboy, e su tutte dominava con sorprendente anticipo il tono crepuscolare e amaro che sarebbe fiorito poi sul finire degli anni Sessanta. Guardando all\'oggi, l’operazione tentata da Antoine Fuqua non può esimersi dal confrontarsi con la tradizione, in un modo o nell’altro è necessario un dialogo, fosse anche nei termini della più anarchica sovversione.

La strada tentata dal regista di Training Day è in realtà inaspettatamente filologica, lontana dalla più recente rilettura tarantiniana e atta piuttosto ad omaggiare la tradizione con una fedeltà stilistica apertamente anacronistica. Niente sangue né ardite soluzioni di macchina, contenuta la rappresentazione della violenza mentre si gioca di lirismo e mito attraverso un grande uso del paesaggio e dello spazio scenico. L’operazione di remake diventa così un aperto omaggio al genere, cui Fuqua si accosta rinunciando a quello stile muscolare e iperrealista che ne ha finora caratterizzato il cinema. La scelta certamente funziona, il film respira l’aria dell’epica western e regala momenti di cinema fuori dal tempo, però resta il rimpianto per un’operazione che poteva certo osare di più, mescolare le carte, portare nel western qualcosa di quel genere viscerale e sporco che Fuqua maneggia così bene quando si tratta di azione metropolitana.

Dove lo stile rinuncia ad intervenire sul genere, qualcosa di simile tenta invece la sceneggiatura di Nic Pizzolatto. Il creatore di True Detective infatti si diverte a rovesciare i canoni base del western, assemblando una squadra di pistoleri di cinque etnie diverse. Allo stesso tempo la minaccia che incombe sul villaggio di agricoltori obbedisce a leggi di affari che hanno ben poco di selvaggio e molto di americano. Il luciferino antagonista di Peter Sarsgaard infatti non è più un bandito ma uno spietato uomo di affari, mentre il denaro di cui è incarnazione cela una maledizione capace di trasformare una buona terra in polvere. Ma è soprattutto nel finale, in cui vengono tracciate le coordinate dell’America che sarà, che questo I magnifici sette decide di guardare alla complessità, anzitutto etnica, del mondo contemporaneo.

Al secondo giro di remake, il capolavoro di Kurosawa diventa un bilanciamento di timida riscrittura e fedeltà filologica, un film di puro stile da cui stentano ad emergere personaggi memorabili mentre l’andamento narrativo segue pedissequo la strada di partenza. E’ come se nel guardare tanto al film di Sturges Fuqua si sia dimenticato di costruirne uno proprio, e la cosa più grave è che a mancare del tutto sono proprio le relazioni tra questi sette magnifici pistoleri, di cui si perde per strada l’amicizia e il senso di riscatto. Quel che resta è impeccabile spettacolo, ma davvero niente di più.

Autore: Matteo Berardini
Pubblicato il 17/09/2016

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