Lion - La strada verso casa
Il lieto fine è scontato ma l’emozione ha il sopravvento sulla sdolcinatezza

La vita del piccolo Saroo sarebbe stata molto diversa se una notte non avesse seguito il fratello al lavoro, nei campi intorno al loro villaggio. Ma un viaggio in treno può sconvolgere totalmente una vita. Può estirparla, violentarla, trascinarla oltre i confini dell’immaginazione.
E’ il 1986 e il piccolo Saroo ha solo 5 anni quando si ritrova per sbaglio a bordo di un treno che a sua insaputa lo catapulta dall’altra parte dell’India, a 1600 chilometri dalla sua casa nel distretto di Khandwa. Solo, in una delle città più popolose del mondo, è confuso fra suoni che non conosce e totalmente smarrito a causa di un fatale tempismo. Non sa neanche pronunciare correttamente il suo nome, il villaggio da dove viene si chiama semplicemente “casa”, il nome della madre è solo “mamma”. In maniera del tutto casuale questa innocenza spaurita si muove in una città infernale, cercando rifugio fra simili, altri bambini che come lui popolano il sottobosco di Calcutta vivendo di resti e di elemosina.
Saroo non si arrende alla vita, e neanche alla beffa del destino. I suoi grandi occhi illuminano per metà pellicola, finché da grande nei panni di Dev Patel si ritrova a vivere in un altro continente, accolto dal calore di una famiglia benestante. L’adozione è per lui la salvezza ultima a fronte dell’impossibilità di ritrovare la propria famiglia d’origine. Presto o tardi però arriva sempre quel giorno in cui un profumo, un colore, un sapore, come le madeleine di Proust, involontariamente attiva la memoria, una lucetta nell’archivio della mente si accende e poi, come perle che si snodano, un ricordo emana un altro e un altro ancora. La lunga strada verso casa è quella che il giovane Saroo intraprende nuovamente per ritrovare la famiglia d’origine grazie alla tecnologia di Google Earth.
Lion di Garth Davis – conosciuto per aver co-diretto con Jane Campion la miniserie Top of the Lake – si basa su una storia reale forte e sorprendente, talmente perfetta che se non fosse vera sembrerebbe inverosimile. Tratto dal racconto dello stesso Saroo Brierley (A long way home), quello di Davis è un film che trova la sua forza nella verità stessa del racconto, riportato con tale parsimoniosa fedeltà, da far venire più di un dubbio sul formato adottato. Per certi versi sarebbe stato meglio quello seriale, adatto alla vicenda, vista la grande capacità di tenere incollato lo spettatore, seguendo pedissequamente i risvolti della ricerca. Nell’insieme quello adottato da Davis è un realismo che avvicina il film al linguaggio televisivo di oggi, sebbene la potenza della storia allontani qualsiasi distorsione estetica. La narrazione è lineare e struggente, e la prima parte della pellicola, nel cuore dell’India, affascina gli occhi e i tutti i sensi. Colori, cibi, sapori, fumi, strade, il suono di una lingua lontana e tradizioni sconosciute mostrano quel mondo con lo stesso sguardo incredulo del piccolo protagonista, che completamente perso e solo trova sempre la forza per sopravvivere. L’istinto del bambino straripa dagli occhi grandi ed espressivi, come se tutta la ‘vita’ racchiusa in quelle grandi fessure non possa assolutamente restare impigliata ai margini di una strada. Si aggrappa ad ogni incontro, ad ogni sguardo fino a quando volerà in Australia dalla sua nuova famiglia.
Il cambio repentino divide la pellicola in due, che bruscamente abbandona il fascino magnetico delle strade indiane per lasciar spazio ad atmosfere familiari e casalinghe nel cuore della Tasmania. L’india di Lion è lontana dalla patina di The millionaire, e Saroo nei panni di Dav Patel è un ragazzone indiano che lotta fra turbamenti interiori tipici di chi è combattuto nella ricerca di una verità che per qualcun altro può essere scomoda. Nel racconto sono presenti tutte le sfaccettature del tema dell’adozione, il rapporto fra fratelli naturali e acquisiti, il differente riscontro che gli stessi genitori possono avere dai diversi figli adottati. Il lieto fine è scontato ma l’emozione ha il sopravvento sulla sdolcinatezza, e anche se Davis si lascia prendere un po’ troppo la mano, la luce sprigionata dagli occhi del piccolo e dalla potenza del racconto, illuminano anche le zone più buie della narrazione.