Top of the Lake: China Girl

China Girl sa essere struggente e affascinante, ma non riesce a costruire un mondo narrativo credibile e coinvolgente intorno alla sua protagonista.

L’annuncio del rinnovo per una seconda stagione di Top of the Lake ha stupito un po’ tutti: dopo una prima tranche chiaramente pensata come autoconclusiva e una conferma da parte degli stessi autori, che avevano escluso un seguito della storia, nessuno si aspettava un ritorno del detective Robin Griffin. Una bella sorpresa, considerato che la serie fermata da Jane Campion e Gerard Lee, nonostante alcuni difetti di scrittura e di ritmo, ha costituito una piccola pietra miliare nella serialità dei primi anni Dieci. Top of the Lake era un mistero intrigante, un oggetto narrativo a metà tra il mistery e il cinema d’autore: prendendo le mosse dalla sparizione di una ragazzina, la serie analizzava tematiche molto complesse come la lettura ideologica del sesso e il maschilismo strisciante dietro alla violenza sessuale. Ancora più interessanti erano i ritratti di donna che Campion e Lee hanno tratteggiato per popolarne il mondo narrativo: donne giovani e anziane, disorientate e volitive, le cui storie vibravano di urgenza e di palpitavano di vita. Prima ancora di True Detective, Top of the Lake ha portato un’autorialità forte all’interno del formato seriale: una visione imperfetta ma stimolante, vibrante dell’urgenza di raccontare dei suoi creatori.

Con China Girl, l’azione si sposta dai paesaggi della Nuova Zelanda e di Laketop all’Australia: laghi e i boschi lasciano spazio ai vicoli di un noir metropolitano torbido e soffocante. Sono passati alcuni anni dai fatti della prima stagione, e Robin Griffin (Elizabeth Moss) è una donna la cui esistenza sta vacillando per il peso di traumi e abbandoni. Tornata a Sidney per ricominciare la sua vita daccapo, Robin indaga sull’omicidio di una donna che si rivela presto essere una giovane prostituta immigrata. Al tempo stesso, la detective decide di affrontare il suo passato e riavvicinarsi alla figlia che ha dato in adozione da piccola. La ragazza, ormai quasi maggiorenne, ha pessimi rapporti con i suoi genitori adottivi e frequenta un uomo coinvolto nel giro della prostituzione...

Come nella prima stagione, anche China Girl è innanzitutto una storia di donne alla ricerca di un’identità e di un posto nel mondo. Robin è il nucleo di questa storia: la sua è una dolorosa presa di coscienza che è cominciata nella prima stagione e riprende oggi, a Sidney, tra una sfuriata con i cadetti di polizia e un pianto notturno. Elizabeth Moss interpreta alla perfezione questa figura fragile ma aggressiva, raccontando con gli sguardi e i movimenti del corpo ciò che le parole non possono dire. Dopo i suoi recenti successi con The Knick e The Handmaid’s Tale, la Moss conferma il suo grande talento e il suo ruolo di primo piano nella serialità d’autore degli ultimi anni.

Al di là della parabola della suo protagonista, China Girl mostra i propri limiti e delude parzialmente le aspettative. La serie non funziona bene nei suoi risvolti mistery e polizieschi: l’intero filone dell’indagine risulta carente di idee e del piacere di raccontare. Le coincidenze sono troppe e troppo ingombranti, i misteri vengono svelati senza particolare gusto e snodi narrativi fondamentali vengono gettati quasi controvoglia. Un esempio su tutti: nel corso delle prime puntate, ci viene anticipato che Robin dovrà incontrare il criminale al centro della prima stagione, il vecchio “antagonista” che ha segnato la sua esistenza. Quello che succede durante l’incontro dovrebbe avere delle conseguenze enormi su Robin e sulla trama, ma gli autori sembrano non interessarsene e, da quel momento in poi, il fatto viene completamente ignorato.

In molti altri casi le indagini sembrano essere soltanto una concessione al genere e all’intrattenimento, e la loro esistenza è meramente funzionale a raccontare ciò che sta veramente a cuore degli autori. Questa scelta sembra funzionare molto meno rispetto alla prima stagione, i cui punti di riferimento (Twin Peaks, in primis) si prestavano più facilmente a una rilettura ideologica. Il risultato è che molte sottotrame appaiono trascurate, mentre diversi personaggi sembrano caricature grottesche, prese terribilmente sul serio. Il modo in cui Campion e Lee rappresentano le categorie dei poliziotti, delle prostitute e dei clienti dei bordelli risulta schematico e grottesco, come se la loro presenza fosse meramente funzionale ad esprimere una tesi. A parte Robin e una manciata di altri personaggi autenticamente originali e riusciti, il mondo di China Girl sembra vuoto e artificiale. Persino l’antagonista, Puss (David Dencik), non funziona: è troppo estremo nei suoi tratti caratteriali e nelle sue convinzioni, troppo sopra le righe per essere credibile nel suo ruolo di manipolatore. Quando Puss dichiara di essere un femminista, risulta molto chiaro quale sia l’intento di Jane Campion – denunciare un maschilismo mascherato da progressismo, un male entitlement senza freni e ben conosciuto da chi frequenta la teoria femminista contemporanea – ma la sua traduzione in termini narrativi e drammaturgici è deludente. Dietro l’etica e la politica, l’estetica annaspa e non tiene il passo.

China Girl si salva grazie alle sue grandi interpretazioni. Si salva per i momenti di ispirazione in cui i suoi autori ci lasciano intravedere la bellezza di un rapporto tra fratello e sorella, la ricchezza della vita sentimentale di una gigantesca poliziotta e di un commissario di polizia. Per alcune scene folgoranti, per il giusto desiderio di portare storie e ambienti diversi all’attenzione del pubblico seriale. Manca comunque qualcosa, qualcosa che impedisce alla serie di emergere dall’immenso calderone della produzione audiovisiva di oggi. Forse è anche una questione di prospettiva: dal 2013 ad oggi, il panorama della serialità contemporanea è cambiato completamente, e sappiamo che è possibile trovare soluzioni più efficaci per raccontare storie “d’autore” al pubblico della televisione e della Rete.

Autore: Alessandro Gaudiano
Pubblicato il 09/10/2017

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