Le cose belle di una coppia “aperta” - Intervista a Giovanni Piperno

All'interno della rassegna "Reference #aggiorniamo l’immaginario", abbiamo incontrato il regista Giovanni Piperno.

Adele e Silvana, 14 anni, Enzo e Fabio, 12. È il 1999 e Intervista a mia madre, di Giovanni Piperno e Agostino Ferrente per Rai 3, trasmesso in prima serata con inaspettato successo di pubblico, diventa fotografia di istanti, di quattro racconti, vite fra le strade e le case di Napoli, ritratto dolce e malinconico, una scoperta che sembra poter contenere l’ipotesi di un futuro, un altro, anche solo sognato, dei protagonisti. Con Le cose belle, 13 anni dopo, i due cineasti tornano a quelle storie, a quelle immagini, a quei volti, e soprattutto ad oggi, a ciò che sono diventati, a cosa è rimasto e a quello che si è perso. Arrivato in sala il 26 giugno, dopo aver già raccolto premi in diversi festival di spessore, il film continua a distanza di mesi il suo viaggio. Qualcosa di inaspettato per gli autori, ancora una volta. L’8 ottobre, in serata, Le cose belle farà tappa al Cineporto di Lecce, accompagnato dai registi, a confrontarsi col pubblico, nell’ambito dei vari appuntamenti di “Reference #aggiorniamo l’immaginario” con le forme e alcuni dei protagonisti dell’audiovisivo. Ecco la nostra intervista a Giovanni Piperno:

Come è stato tornare a quei ragazzini diventati adulti? Cosa ha significato per loro tornare a raccontarsi?

Per me e Agostino è stata un’esperienza importante, anche se difficile, un’esperienza nel complesso, per tutti, poco “romantica”, per così dire, perché fondamentalmente loro non avevano nessuna voglia di tornare a raccontarsi, a parte Enzo che comunque ha delle velleità artistiche, come già da bambino. Con gli altri è stato più faticoso, abbiamo pensato così a dei gettoni di presenza per le scene, come se fossero attori professionisti. Ma potevamo comprenderli, i loro erano ormai sogni infranti, mentre anni prima avevano vissuto Intervista a mia madre come un gioco, una favola, guardando al futuro.

Intervista a mia madre era un lavoro per la televisione. È molto interessante come quel materiale sia poi penetrato, anche criticamente, quasi a “misurarsi” in qualcos’altro. E ora che sono adulti non li intervistate più, ma le immagini di loro ragazzini tornano anche nel racconto al presente…

Sì, è così, anche perché adesso i confini fra i linguaggi si sono fatti più fluidi, ma soprattutto quello che più ci premeva era far muovere il film, conferirgli proprio un movimento, uno sviluppo narrativo.

Una dimensione narrativa, a mio parere la più forte, quasi misteriosa per certi versi, è nel rapporto che i quattro hanno non esattamente con i luoghi, ma direi più con gli spazi, in cui si muovono. Come se ognuno di loro sia il regista del suo spazio e in quello spazio si inscriva, viva.

È vero, è un aspetto a cui sia io che Agostino attribuiamo rilevanza, ma non si tratta mai di un ragionamento fatto a tavolino, un disegno precostituito, è qualcosa che avviene, che prende forma. È importante che i luoghi si sentano, luoghi che raccontano i personaggi e viceversa. Per questo non amiamo i primi piani e preferiamo piuttosto la profondità, i campi larghi, oppure i dettagli, come le Madonne e i Padre Pio ne Le cose belle. Cose che facciamo in maniera molto libera, istintiva. La tua considerazione sul rapporto fra personaggi e spazio mi fa pensare soprattutto a Silvana, forse la più intelligente del gruppo, che vediamo sempre un po’ prigioniera dei suoi spazi, che possono anche cambiare, ma lei sta lì a “fare i servizi”, a pulire. Adesso è felice con il suo nuovo compagno, è incinta e vive in uno spazio piccolissimo. Ma la sua “figura” resta come cristallizzata. Sono contento per lei ma continuo a pensare che rappresenti uno dei tanti esempi di gioventù italiana sprecata.

Vorrei chiederti anche del tuo lavoro in coppia con Ferrente. Come si è evoluto nel tempo? Le cose belle è stato un interrogarsi anche sul vostro tempo, e non solo su quello dei protagonisti?

Siamo una coppia anomala, “aperta”, non lavoriamo sempre insieme. Le nostre regie sono tre : Il film di Mario, Intervista a mia madre e Le cose belle. In realtà le dinamiche e la sostanza del nostro lavorare fianco a fianco non sono cambiate, sul set c’è una fortissima fiducia reciproca: a lui piace il mio modo di girare e può concentrarsi di più sulle scene, sui dialoghi. Certo,c’è confronto, ma ognuno ha il suo campo d’azione. Al montaggio è diverso, preferiamo occuparcene separatamente, cerchiamo quindi un po’ di evitarci, anche se poi l’obiettivo artistico è lo stesso. Siamo completamente diversi per origini ed esperienze, ma quello che cerchiamo e vogliamo è la stessa cosa, il nostro modo di guardare ai personaggi, di osservarli, è lo stesso.

E credi che tornerete a raccontare i protagonisti di Intervista a mia madre e Le cose belle in un nuovo capitolo?

Non ci abbiamo pensato, ma credo proprio di no, abbiamo già dato, come si suol dire, e vogliamo fare altre cose. Certamente i rapporti restano preziosi e rimangono, ultimamente soprattutto con Enzo. Pensa che qualche sera fa, a Roma, abbiamo proiettato anche Il mio nome è Nico Cirasola, che ho diretto solo io, e Il film di Mario. Due lavori del 1998 e del ’99. Con noi c’erano anche Cirasola e Mario Giammaria. Ancora, dopo tanti anni.

E in questi anni, credi che, oltre a elaborare nuove forme estetiche, il cinema del reale sia riuscito a produrre nuovi immaginari, o a spostarne altri, a infilarsi criticamente in quelli consunti, spolpati, come quelli televisivi, ad esempio? Cosa è successo nel tempo che separa Intervista a mia madre e Le cose belle?

Purtroppo non sono ancora riuscito a vedere The Act of Killing e The Look of Silence di Joshua Oppenheimer ma mi sembra di aver capito che si tratti di film splendidi sotto l’aspetto visivo. Ecco, non credo che il documentario abbia prodotto nuovi immaginari, non come categoria, intendo. Sono quelli che fanno documentari validi, importanti, che producono nuovi immaginari. El Sicario. Room 164 di Gianfranco Rosi non te lo scordi più dopo averlo visto. Ma perché non è semplicemente un documentario, è un documentario di Rosi. Penso anche a un lavoro bellissimo come Dal profondo di Valentina Zucco Pedicini. Negli ultimi anni i costi più bassi, le nuove tecnologie, hanno consentito a molti cineasti di valore di potersi esprimere, di non restare fuori. Certo, rimangono tanti, al contempo, i lavori scialbi. Allora se il documentario può produrre immaginario è solo perché certi registi e le loro opere sono in grado di farlo.

Autore: Leonardo Gregorio
Pubblicato il 07/10/2014

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