Far East 2013 / Day 7

Inesorabile il FEFF prosegue la sua corsa, e anche se le energie svaporano il programma giornaliero si infittisce, e noi non possiamo certo tirarci indietro. Così, tra un Sex and the City di stanza a Tokyo, horror thailandesi e scontri medioevali tra signori feudali giapponesi, passa un’altra giornata, con cinque visioni tra il repellente e il molto interessante.

La nostra mattina si apre con The Floating Castle della coppia di registi Higuchi Shinji e Inudo Isshin, che se sulla carta si presentava come un film storico massiccio e cruento su un’epica resistenza, si è rivelato essere quasi tutt’altro. Una sorpresa in realtà assai gradita. Il mitologema di partenza è comunque quello dei pochi contro i tanti, questa volta incarnato dall’assedio del Castello Oshi da parte degli uomini del signore della guerra Hideyoshi Toyotomi, che nel 1590 assalta l’ultima zona di Giappone sfuggita al suo dominio cingendo d’assedio cinquecento ribelli con un esercito di ventimila uomini. L’attacco prevede l’uso di ogni stratagemma, anche dei più sporchi, come l’imponente lavoro di dirottamento di due fiumi vicini per attaccare il castello con un inondazione. Lo shogun e i suoi generali non hanno però fatto i conti con Nagachika Narita, il signore del castello, che riuscirà a stremare gli attaccanti e portare lo scontro ad un esito inaspettato. Sorretto da un impianto digitale e di mezzi davvero ragguardevole – imponenti effetti in CGI delle inondazioni, costanti scene di massa in costume – The Floating Castle scorre nelle sue due e mezza con una scioltezza rimarchevole, introducendo personaggi semplici ma curati e intessendo una ricostruzione storica fedele ma assai dissacrante. E’ ciò infatti che contraddistingue questo bel film giapponese, il curato rapporto tra ironia ed epica, in cui l’una decostruisce in buona parte l’altra senza però portare ad un disinnesco dell’intero tessuto filmico; grazie soprattutto al personaggio del bislacco Nagachika, i due registi mostrano con chiarezza come orgoglio e onore possano non andare nella stessa direzione ma anzi l’assenza del primo possa essere una forma ben più forte ed efficace per preservare il secondo. Diversi sono infatti i passaggi in cui i difensori riescono a prevalere o sopravvivere grazie a rotture della tradizione, a pratiche apparentemente umilianti (come un nobile signore che balla davanti all’esercito nemico per attirare il fuoco su di sé e rinsaldare l’animo dei propri uomini con il suo sacrificio) che nascondono però grande coraggio e sacrificio. Il risultato è così un film molto consapevole di questa dinamica, che sacrifica magari qualcosa del suo apparato tecnico – i due registi non riescono a ricavare molto dalle loro scene d’azione – ma rimane impresso nella memoria per la sua particolarità.

Condannato ad una veloce cancellazione è invece il secondo film della giornata, il pessimo Tiktik: The Aswang Chronicles, del regista filippino Erik Matti. Infatti, nonostante sia la prima vera dose di trash che il festival finalmente ci regala, l’ironico horror di Matt non riesce a far scattare il meccanismo chiave del cinema di questo tipo, quell’accumulo di elementi che giocati con classe riescono a trasformare un film brutto nel suo opposto proprio attraverso la sottolineatura dei suoi caratteri più grotteschi. Quello che potremmo chiamare effetto Rodriguez qui non scatta, e una scena in cui un bambino abbatte mostri vampireschi con croccantini all’aglio lanciati da una cerbottana mentre il protagonista fa piazza pulita con due code di bue usate a mo’ di frusta non basta a risollevare le sorti di un film spazzatura nel senso letterale del termine. Peccato perché un assedio di un branco di aswang – mostri locali tra i vampiri e i licantropi – poteva essere valorizzato in mille modi differenti, mentre qui pare semplicemente girare a vuoto.

Perso con rammarico il film del pomeriggio – quel Feng Shui del cinese Wang Jing che voci di corridoio dicono sia stato il film della giornata – ci imbattiamo in serata in una delle peggiori opere della selezione, il nipponico Girls for Keeps, film piattamente convenzionale sul piano formale e francamente ributtante su quello morale. Sorta di Sex and the City trasferito a Tokyo, il film del giovane Yoshihiro Fukagawa è il racconto di un gruppo di amiche al varco dei trent’anni, tutte donne in carriera affermate alle prese con dilemmi sentimentali o (para)esistenziali sul tempo che passa o la lotta dei sessi. Affrontando temi importanti come il ruolo della donna nella società contemporanea con brillante superficialità, Girls for Keeps è un film da rigettare apertamente nella sua normalizzante ideologia borghese, nel (poco) velato inno al consumismo più materiale che ne abita ogni fotogramma, nella patetica ricerca di abissi di tristezza esistenziale portata avanti con una profondità che avrebbe fatto invidia a Fabio Volo. Qualunquista e fintamente progressista, il film di Fukagawa è aggravato anche dal linguaggio registico adottato, una patina brillante fotocopiata dalla commedia americana più superficiale, esempio di acquisizione passiva di stilemi estetici pretesi e spacciati come internazionali e “neutri” quando invece profondamente compromessi dalla loro natura ideologica. Per certi aspetti il peggior film visto sinora, sicuramente il più insopportabile.

Di tutt’altra specie il secondo film serale, An Inaccurate Memoir del cinese Yang Shupeng, avventura tra l’action e il bellico ambientata in quegli anni ormai così frequenti nel cinema d’azione cinese, i 30-40 del novecento, a cavallo tra modernizzazione e strascichi di western. La storia prende piede nella Cina nord-occidentale durante l’occupazione giapponese, e racconta del graduale coinvolgimento di un gruppo di anti-eroi in una patriottica lotta di liberazione. Fang e i suoi sono infatti una banda di banditi che agisce libera nei territori occupati, contrari alla presenza giapponese ma comunque non tanto da intervenire direttamente. A cambiare gli assetti sarà la presenza di Gao, soldato cinese disperso che dopo esser stato accettato nel gruppo convincerà i suoi nuovi amici della necessità di un intervento diretto, e la visita nella regione del fratello dell’Imperatore potrebbe essere l’occasione per farlo. An Inaccurate Memoir è quindi la storia di una conversione, per quanto sotterranea e invisibile, ad una causa collettiva, la crescita interiore di un gruppo di amici che si scoprono pronti alla lotta e al sacrificio. Peccato però che questo passaggio di sponda non arrivi veramente allo spettatore, che lo vede e riconosce sullo schermo in quanto schema acquisito, ma non lo vive nella particolarità di questa storia. Tecnicamente formidabile (c’è una sparatoria sotterranea in piano sequenza che ha dell’incredibile), il film di Yang Shupeng scopre davvero troppo il fianco sul versante narrativo, dimostrandosi incapace di costruire caratteri efficaci e soprattutto di sottrarsi ad una demonizzazione propagandistica del nemico che appare assai anacronistica (giapponesi che giocano a calcio con testi umani). Ad aggravare il giudizio sul film ci sono poi le dichiarazioni dello stessa regista, che in più occasioni ha dichiarato di voler lavorare sul western alla cinese, mentre in realtà di western An Inaccurate Memoir non ha quasi nulla, né elementi topici né paesaggi, né soluzioni formali né aspetti tematici. Non che sia un male in sé, ma ci dice qualcosa sulla consapevolezza cinematografica del suo autore.

Nella proiezione notturna abbiamo avuto la seconda sorpresa della giornata, Long Weekend di Taveewat Wantha, secondo horror thailandese della selezione. Dopo Countdown infatti anche questo film si rivela decisamente efficace e ricco di sorprese; meno originale e divertente del primo thai visto, ma comunque molto valido. La storia riprende i principi base dello slasher, con un gruppo di giovani ragazzi in vacanza decisi a sballarsi e fare sesso, ma man mano che la narrazione procede aumentano le suggestioni che rivelano come il modello principale, se poi ce ne è uno, è La casa di Sam Raimi. Uno ad uno infatti i ragazzi vengono conquistati dalle forze oscure che abitano quel luogo, in un crescendo di orrori che sfocia nell’onirico e nel gioco temporale. Wantha si rivela molto consapevole della materia trattata, competente nel riproporre gli elementi base del genere ma anche capace di disseminare false piste e inganni, disperdendo la narrazione in sentieri spiazzanti che evitano al film di diventare l’ennesimo massacro senza fine e basta. Certo di originale c’è poco, ma resta il fatto che in questi lavori thai c’è più orrore e cinema che in decine di prodotti omologhi hollywoodiani.

Autore: Matteo Berardini
Pubblicato il 20/01/2015

Articoli correlati

Ultimi della categoria