Far East 2013 / Day 3

Primo paese per rappresentanza numerica al festival (12 film, come per la Corea del Sud), il Giappone apre e chiude la nostra domenica al Far East con due opere leggere e scanzonate (in realtà specificamente folle la seconda), che dopo il poco riuscito It’s Me, It’s Me di Miki Satoshi ci fanno sperare che il meglio per questa nazionalità debba ancora arrivare.

Ad accoglierci in mattinata troviamo il “punk family drama” G’mor Evian di Yakamoto Toro, tutto incentrato sulle turbolenze dell’adolescenza alle prese con modelli genitoriali sull’orlo di una crisi di maturità. La quindicenne Hatsuki è divisa tra i doveri scolastici, la migliore amica Tomo e una mamma confinata nei suoi eterni diciassette anni. Il tutto viene straordinariamente accentuato dall’improvvisa apparizione del compagno Yagu, un buffone dai modi esuberanti e dal sorriso inebetito che gioca a fare il papà punk della situazione. Nonostante i toni da sit-com e uno script abbastanza prevedibile, il film scorre comunque leggero, focalizzandosi adeguatamente sull’arco di trasformazione di ogni personaggio per una discreta prova registica che indaga il rovesciamento dell’età mentale senza drammi e con vena ironica, ma si ritrova a lasciare poco più che un’esile traccia nella nostra memoria bersagliata da titoli festivalieri.

A segnare invece quest’edizione è stata sicuramente la visione del sudcoreano National Security, atteso e tanto discusso film di denuncia che ricostruisce i ventidue giorni di tortura subiti in prigione nel 1985 da Kim Geun-tae, attivista del movimento democratico sudcoreano al tempo della dittatura di Park Chung Hee. National Security è infatti un film importante e coraggioso che colpisce per la radicalità della sua narrazione, che pur non sfociando mai, saggiamente, nel gore sanguinolento è costituita per gran parte da scene di tortura. Questa scelta però è anche il limite principale del film, che pur mosso da buone intenzioni va incontro a criticità ontologiche proprie della narrazione scopica da non sottovalutare. Quando si parla di violenza, storia vera e cinema è ormai difficile per noi non tornare con la mente a Diaz, film che scopriamo ogni giorno più necessario ed esemplare nella sua consapevolezza linguistica e morale, e specialmente a quella mezz’ora centrale, la cui visione opprime e sconvolge depositando un angosciante lascito che resta. Quel che insegna Diaz infatti è che tutto, tutto va mostrato in questi casi, senza ricorrere alla spettacolarizzazione ma neanche alla reiterazione; avrebbe funzionato un film interamente costituito dalle violenze interne alla scuola? Un film di soli schiaffi, sputi, calci, reni spezzati e ossa frantumate, per una durata doppia, tripla a quella cui Vicari ci fa assistere? O tale scelta avrebbe invece portato al risultato opposto a quello voluto, all’anestetizzazione della visione, alla normalizzazione dell’orrore, dell’indicibile, della tortura. E’ in questo tranello che cade a nostro avviso National Security, che nel suo darsi pienamente alla rappresentazione della violenza senza costruire un film effettivo attorno ad essa – ma anzi spalancando abissi di ripetizione fin quasi alla noia – rischia di raggiungere l’effetto opposto a quello sperato. Già visto l’anno scorso con il fiacco Unbowed – film simile per intenti di denuncia ma anche per debolezza di esecuzione – Chung Ji-young non riesce a raccontare la vera storia del suo protagonista, la forza della sua morale e l’orrore del sistema contro cui si batte, allo stesso modo in cui riesce a dare solo una vaga inquadratura psicologica alle figure degli aguzzini. Nonostante ciò dicevamo che National Security è un film importante, e lo è perché si va a collocare in un filone (in cui ritroviamo, oltre al citato Unbowed, anche il vincitore dello scorso Far East Silenced) di critica autoanalisi che non può che sorprendere date le attuali circostanze politiche della Corea del Sud; invece che alimentare e forgiare una manichea divisione noi/loro in cerca di un’identità solida e incontrovertibile da opporre al nemico (prassi ciclicamente ripetuta dal cinema americano), il cinema coreano dimostra una capacità di relativizzazione e autocritica decisamente matura, se non per gli esiti estetici sicuramente per quelli culturali. E per questo non possiamo che ammirare lavori come National Security con profondo rispetto.

Prima di arrivare al secondo film coreano della giornata, il Far East ci spiazza con uno dei suoi tipici cambi di prospettiva, sollevandoci dalle torture politiche per buttarci in mezzo al gioco di coppie in crisi su cui è costruito il film successivo, il taiwanese Will You Still Love Me Tomorrow?. Diretto dal regista sino-americano Arvin Chen, il film è una commedia romantica dal forte stampo occidentale, vicina al più frivolo cinema inglese per i suoi personaggi dagli orientamenti sessuali confusi o sconvolti da ansie prematrimoniali. Sorretto da un buon cast e girato con competenza, senza particolari guizzi a parte un paio di soluzioni visionarie che comunque non stonano, Will You Still Love Me Tomorrow? è un film che trova il suo principale motivo d’interesse nel modo in cui fa propri con estrema naturalezza stilemi stilistico-narrativi ormai più che standardizzati in occidente, ma a ben vedere tale mimetismo è anche il suo limite. Fortemente consolatorio e prevedibile, il film di Arvin Chen è piacevole nel suo percorso, ma al momento di chiudere la vicenda il divertimento pare esaurito e non rimane che il già visto; unica nota interessante è la solo parziale riconciliazione del finale, che pur tratteggiando con superficialità il tema dell’omosessualità lascia comunque i suoi personaggi liberi di essere ciò che sono senza risparmiargli qualche dolente conseguenza.

Ben più centrata e riuscita è invece la successiva commedia vista, il coreano All About My Wife, remake ufficiale della commedia argentina Un novio para mi mujer. Il film di Min Kyu-dong, al nono posto di incassi nel 2012, è infatti un ottimo esempio di cinema popolare leggero e divertente capace di non rinunciare per ciò alla sua intelligenza. Parte del successo è indubbiamente da ascrivere alla bontà del soggetto di partenza – la storia di un marito che stanco dell’asfissiante e ipercritica moglie chiede ad un celebre Casanova di corteggiarla così da avere un pretesto per il divorzio – che il film però sa sfruttare con sagacia, sottolineandone gli eccessi più grotteschi senza divenirne succube e giocando con la sottotraccia più smaccatamente romantica senza precipitare nel melenso. Grazie a personaggi ben scritti e splendidamente recitati – dei tre protagonisti diverte assai il Casanova di Ryu Seung-ryong, anche se a sorprendere è Lim Soo-jung, capace di giocare bene sui confini di un istrionismo ben controllato – il film riesce a passare da una prima parte smaccatamente più divertente ad una seconda intimista e meno strabordante senza perdere un colpo, facendosi anche perdonare il finale consolatorio e lasciando un’impressione fortemente positiva di sé.

E’ in serata però che arriva il film da ricordare della giornata, l’ambizioso dramma storico The Last Supper del regista cinese Lu Chuan. Partendo dalle ossessioni senili che tormentano un vecchio imperatore, e alle quali si tornerà in chiusura in una struttura circolare particolarmente elegante, Lu Chuan racconta uno degli episodi più noti della mitologia storica cinese, ovvero l’ascesa al potere di Liu Bang da contadino ad imperatore, fondatore della dinastia Han e protagonista di una lunga faida con due nemici giurati, il nobile Yu e il generale Xiu. Per valutare adeguatamente The Last Supper dobbiamo partire proprio dalla notorietà di tale vicenda, un passaggio storico attorno a cui la cultura cinese si è particolarmente addensata e del quale non serviva ripercorrere pedissequamente gli eventi. E’ per questo che, nel suo concentrarsi su pochi singoli passaggi ( come il celebre “banchetto alla Porta Hong”), il film di Lu Chuan non si rivela un racconto storico compiuto quanto piuttosto un viaggio – aperto dai racconti e deliri dell’imperatore ormai anziano e tormentato dai fantasmi dei suoi nemici, vivo o morti, reali o presunti che siano – sulle ossessioni e i meccanismi immortali del potere. Specie nella sua seconda parte, in cui la macbethiana consorte dell’imperatore si fa motore principale dell’azione, assistiamo a scene dal forte potere allegorico, che si riferiscono ai meccanismi di reiterazione del potere e che non a caso hanno causato non pochi problemi di censura in patria. L’ambizione e il senso di rivalsa insite nell’uomo comune, l’ossessione delirante come inevitabile corredo del potere, la capacità dell’autorità di perpetuare sé stessa tramite il controllo del proprio racconto storico, sono questi i temi che interessano principalmente Lu Chuan, che però non accantona per questo una ricerca storica evidentemente curata in ogni minimo dettaglio. Il risultato è un film estremamente affascinante, forse laconico oltre le intenzioni originarie a causa della forte sintesi compiuta dalla sceneggiatura su un materiale enorme, forse eccessivamente patinato nei rari momenti in cui l’acuta ricerca formale si fa maniera, ma comunque importante come discorso politico sulla Cina odierna, oltre che cinematograficamente imponente e visivamente impressionante.

A chiudere questa ricca giornata, con quel tipo di proiezione notturna in cui siamo stati abituati a vedere opere come minimo bizzarre, abbiamo avuto il secondo film giapponese della giornata, cui si accennava in apertura, l’anarchico Maruyama, the Middle Schooler di Kudo Kankuro. Intriso di cultura pop giapponese tritata e condensata in una forma estremamente plastica e fumettistica, il film di Kankuro raccoglie dentro di sé personaggi decisamente sopra le righe, da un anziano affetto da demenza che si riscopre rockstar ad una casalinga alle prese con l’attore protagonista della sua soap preferita, ma su tutti domina il Maruyama del titolo, 14enne estremamente fantasioso ed aduso a fantascientifici viaggi mentali, intenzionato a diventare abbastanza elastico da potersi praticare da solo del sesso orale. Ad aiutarlo in questo intento manzoniano ci sarà l’enigmatico Shimoi, il nuovo strambo inquilino della zona, al cui arrivo sono però seguiti una serie di omicidi di criminali. Con una narrazione totalmente frammentata Kankuro, giovane regista molto apprezzato in patria, porta avanti un film che nei primi minuti non può che divertire per la sua follia, ma pur sempre di grottesco di bassa lega stiamo parlando e a film avanzato, quando le storie non accennano ad avvicinarsi e quella principale tenta di mettere su un discorso serio senza riuscirci, la noia inizia sempre più a prendere piede, le risate si fanno più stanche. Con un minutaggio più condensato e una maggior attenzione alla struttura narrativa Maruyama, the Middle Schooler sarebbe potuto essere anche qualcosa di più. Ma forse no, del resto gli intenti del film e del regista sono chiaramente rispettati, e in fondo va anche bene così.

Autore: Matteo Berardini
Pubblicato il 20/01/2015

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