Far East 2013 / Day 5

Arrivato a metà corsa il Far East Film Festival cade con la giornata di ieri nel suo primo passo falso, presentando una programmazione che, se non fosse stato per l’ottimo Ip Man – The Final Fight di Herman Yau, sarebbe stata un’unica, ininterrotta delusione. A ripensarci l’aver perso per motivi logistici il pittoresco Million Dollar Crocodile – monster movie cinese su un coccodrillo gigante, il vero trash che se non vedi al Far East poi non lo recuperi di certo – poteva essere già un primo buon segnale di come sarebbe andata la giornata. Ma tra un’epopea storica di Andrew Lau e il ritorno all’horror di Hideo Nakata ci eravamo comunque recati al Teatro Nuovo Giovanni da Udine carichi di buone aspettative. E invece.

Il primo dei quattro film visti in giornata è in realtà un’opera che avrebbe potuto raggiungere grandi risultati se il suo regista Guan Hu fosse riuscito a mantenere un maggior controllo sulla propria materia narrativa. Valorizzato da una forte presa di posizione politica e dal coraggio di tingere i fasti della commedia nel dramma del sacrificio personale, della sconfitta, Design of Death racconta la storia di Niu Jieshi, terrorista della morale e del costume che tormenta con la sua dissacrante anarchia gli abitanti di un piccolo paesino della Cina anni ’40, il Villaggio della Longevità, celebre guarda caso per la lunga vita dei suoi abitanti. Unito alla vedova di quello che era l’uomo più anziano del villaggio, Niu Jieshi attira infatti su di sé le maledizioni e la furia dell’apparato politico/religioso della comunità, arroccato su posizioni rigidamente conservatrici e non disposto ad accettare l’alterità che Jieshi rappresenta, specie se egli con il suo (non poi così) folle comportamento ne svela le (poco) velate idiosincrasie. Con il suo comportamento però Jieshi diverrà vittima di un complesso piano da parte delle autorità del villaggio, che si rivolgeranno ad un vecchio nemico dell’uomo per ucciderlo con un delitto perfetto ed eliminare così l’imperfezione del sistema. In questo modo Guan Hu, sfruttando l’escamotage della cornice storica e di genere – un tono da commedia che va pian piano a perdersi fino al nerissimo finale – può permettersi di sferrare un forte attacco alla Cina più conservatrice e bigotta, che reitera il proprio dominio su discorsi di potere rigidamente ancorati alle tradizioni e per questo inattaccabili. Il problema cui va incontro il film però è la mala gestione della struttura giallistica del whodunit, che si sovrappone nel corso della narrazione e prende piede dall’iniziale ritrovamento del cadavere di Niu Jieshi da parte di un medico inviato lì ad indagare su di una fantomatica epidemia. Appesantito da una fitta rete narrativa inutilmente complessa, questa dimensione gialla finisce per ingolfare il film nella sua parte finale, quando continue rivelazioni affidate al montaggio di flashback arrivano ad illuminare lo spettatore in un percorso di svelamento troppo lungo e confuso, imbrigliato, caotico. Oltre ad una regia a volte troppo barocca e inutilmente spettacolare, è questo ad appesantire e affossare in buona parte Desigh of Death. Anche se l’immane frana che distrugge il villaggio in seguito alla morte di Niu Jieshi rimane una potente e limpida metafora del destino cui si condanna una comunità nel momento in cui decide di eliminare ogni alterità.

Su quello stesso escamotage, necessario e ineludibile per il cinema cinese, che prevede il trattare storie nel passato per parlare del presente, o per lo meno di temi che altrimenti non potrebbero essere toccati, è costruito il secondo film della giornata, The Guillotines di Andrew Lau, improponibile paccottiglia storica che cerca di partire da una leggenda cinese, il gruppo di assassini agli ordini della Dinastia Quing chiamato appunto Le Ghigliottine, per trattare poi temi più impegnati come l’impatto distruttivo della modernità sulle tradizioni, il rapporto tra il potere e i suoi strumenti di controllo, il conflitto razzista tra etnie cinesi diverse. Attraverso la figura di Wolf, il leader ribelle dell’etnia oppressa, Lau e i suoi sceneggiatori introducono anche diversi riferimenti cristologici e divini, disegnando la sua figura come quella di un nuovo messia pronto al sacrificio per l’avvento di una nuova era dorata in cui i conflitti razziali possano essere superati. L’altro nucleo tematico è invece il rapporto tra le Ghigliottine e l’Imperatore, che dopo averle addestrate e usate per anni decide di eliminarle per pulire l’onta che esse comunque rappresentano, scelta permessa dall’avvento della tecnologia e il conseguente arrivo delle armi da fuoco. Tutti questi elementi però non riescono mai a coinvolgere veramente, presentati da una sceneggiatura confusa, retorica e dal sapore vagamente luddista, ma soprattutto disinnescati da una regia che non ha il minimo senso di controllo sulla sfrenatezza della propria messa in scena. Per Lau pare che qualità e quantità vadano necessariamente di pari passo, e ciò trasforma The Guillotines in un prolisso baraccone degli eccessi e degli effettacci di più bassa lega, una cornice talmente dozzinale da cui per i personaggi è praticamente impossibile emergere.

Chi invece è capace di trarre grandi momenti di cinema dalle proprie scene d’azione è Herman Yau, che porta ad Udine il quarto capitolo (escludendo il personale The Grandmaster di Wong Kar-wai) della saga di Ip Man, che dopo i primi infelici capitoli dedicati al celebre maestro di Bruce Lee – appesantiti da una retorica nazionalista e da un ricorso totalizzante alle scene d’azione – può finalmente annoverare un grande film di rilievo con questo Ip Man – The Final Fight. Concentrando lo sguardo sugli ultimi 15 anni di vita del maestro, stanziato ad Hong Kong dopo la fuga da una Cina invasa dai Giapponesi, Herman Yau sfrutta infatti la cornice del cinema di genere per narrare l’evoluzione dei costumi e della cultura hongkonghese di quei due decenni, portando in scena con un’ottima ricostruzione storica – ricca di elementi che abbiamo imparato a conoscere grazie al cinema di Wong Kar-wai – gli anni del dopoguerra, dalle difficoltà economiche alla disoccupazione, dalle lotte sindacali alla presenza inglese sul territorio. Colpisce del lavoro svolto da Yau soprattutto la consapevolezza con cui viene gestita la figura del Maestro, un eroe già fatto e finito e sul quale non si poteva costruire una storia e un percorso di crescita; ad evolvere quindi non è tanto Ip Man quanto la nuova famiglia estesa che egli si costruisce ad Hong Kong, l’insieme di allievi che costituiscono assieme un gruppo che rimarrà nel bene o nel male unito per tutti quegli anni. Con una narrazione che salta di episodio in episodio Yau riesce a raccontare con estrema delicatezza le loro vicende, non escludendo affondi politici e il classico discorso sulle responsabilità che discendono dai grandi poteri, ovvero il kung fu. Ip Man – The Final Fight non è comunque soltanto un film corale impreziosito da una minuziosa cornice storica, e quando c’è da menare le mani il Maestro e i suoi allievi non si tirano di certo indietro. Le scene d’azioni nel film ci sono quindi, ma sono dosate all’interno della narrazione con estrema naturalezza, lanciando i personaggi allo scontro solo quando è effettivamente il caso di farlo e imbastendo sui loro conflitti coreografie davvero notevoli; Yau infatti riesce ad unire spettacolarità e realismo in un pieno appagamento visivo, garantito poi da una regia stabile veramente capace di sfruttare i corpi e il loro movimento nello spazio, al contrario di tanto cinema d’azione hollywoodiano ossessionato dalla rapidità del montaggio e da convulse riprese a mano. Yau invece abbonda di lenti dolly e tagli ben studiati, portando a casa così un film pienamente riuscito sotto tutti i punti di vista, non ultima l’ottima performance di Anthony Wong, che dà una grande prova fisica di sé e si conferma uno di quegli attori fatti per essere posti davanti ad una macchina da presa. Grande cinema, grande Far East.

Delusi da Design of Death, sopravvissuti per un pelo ad Andrew Lau ma ringalluzziti dalla saga di Ip Man, entriamo quindi in sala per l’ultimo appuntamento di oggi, The Complex, che segna il ritorno di Hideo Nakata al cinema horror. Dopo aver attirato l’attenzione su di sé con Ringu e Dark Water – e averla anche in buona parte persa con quel pastrocchio di The Ring 2, girato ad Hollywood, e un film live-action derivato dal manga/ anime Death Note – Nakata torna al suo genere d’elezione con un racconto di fantasmi fortemente tradizionale, l’odissea della giovane Asuka, che dopo essersi trasferita in uno squallido danchi (palazzone popolare giapponese) viene perseguitata da spettri reali e fantasmi della propria mente. La partenza del film di Nakata promette bene, segue i canoni del genere riuscendo a mantenerli funzionali, ma la storia incappa presto in un primo ostacolo, una falsa pista che se può affascinare per il gioco di scatole cinesi che porta con sé allo stesso tempo avvilisce per la sua prevedibilità. Lo stesso destino tocca all’autentico villain della pellicola, che quando va bene è un tenero bambino carico di indizi delle mostruosità di là da venire, ma quando va male sembra la parodia orientale di Chucky la bambola assassina. La situazione è poi aggravata da scorciatoie narrative a dir poco abusate, come la classica esperta incontrata per caso o spiegoni di sceneggiatura assai raffazzonati, ma a preoccupare davvero è il fatto che Nakata pare abbia perso la capacità di separare l’orrore dal ridicolo, scatenando sonore risate al posto di brividi gelati nei momenti in cui cerca di spaventare lo spettatore. Peccato perché il film aveva un grande spunto narrativo; partendo dal fatto che i fantasmi altro non sono che legami malamente elaborati con i morti, il film presenta i suoi personaggi colti da una sorta di dipendenza dell’altrove, in una volontaria fuga dalla realtà che permetta di rimanere vicino anche solo alle ingannevole ombre dei propri cari perduti.

Autore: Matteo Berardini
Pubblicato il 20/01/2015

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