Far East 2013 / Day 2

La seconda giornata del Far East si apre all’insegna del Giappone, a conferma di un vento di cambiamento che soffia sulle sue coste. Dopo un anno difficile con un notevole allontanamento del pubblico e una parziale chiusura delle sale cinematografiche, l’industria cinematografica nipponica torna alla ribalta destreggiandosi tra film di richiamo internazionale e prodotti di confezione commerciale per un successo sicuro di botteghino. All’interno di un simile contesto si fanno largo esordienti di talento, tra cui molte voci femminili a far da cassa di risonanza, con pellicole che trasmettano una discreta scossa alle poltrone e alle casse. Molti, poi, sono i film che tornano a battere sul proprio territorio, rinsaldando gli argini di storie drammatiche indirizzate al pubblico locale, dove fanno il loro ingresso freaks ed loser, a far colare qualche lacrima amara dalle piccole fessure a mandorla. Tra questi una nota di merito va a Angel Home, amato melodramma d’impianto medico del regista Tsutsumi Yukihiko, noto nel panorama delle pellicole commerciali, ma anche navigato regista teatrale. Adattamento dell’opera teatrale di successo di Takuma Takayuki, a sua volta ispirato a fatti realmente accaduti, Angel Home trae la sua forza dal concentrato di emozioni che si scatenano tra le quattro pareti della casa di cura per disabili mentali, nota come “Casa Girasole”. All’interno si muovo personaggi scissi, disadattati e con ritardi più o meno evidenti che cercano un’alternativa sociale ad un mondo che prospetta prigionia ed emarginazione. L’iniziale impianto corale cede presto il passo all’indagine intima focalizzata sull’amore tra due ospiti, così inaspettato da sconvolgere ritmi, abitudini e certezze di una piccola comunità dai fragili equilibri.

A riprova dell’espansione del mercato cinematografico della Cina continentale, con fasi alterne per i cineasti hongkonghesi, giunge nelle sale l’attesissimo Cold War, un thriller di cospirazioni politiche, tensioni interne ed esplosive reazioni volte a difendere un’integrità personale tutta da dimostrare. Un titolo, questo, che solo ha sfondato le barriere e dribblato fino alla top ten di incassi, confermando l’incremento del 12% annuale delle grosse produzioni e dei film destinanti ad un target più locale. Grazie ad un accordo che va avanti dal 2003, gli hongkonghesi si lanciano nella sfida alla mappatura su ampia scala confidando nel sostegno di partner cinesi, che ha permesso, così, di far leva su film costosi e ricchi di stelle, puntando ad un immediato successo sull’intera scala nazionale. Con cifre ad alta quota, quindi, il Cold War degli esordienti Longman Leung e Sunny Luk conquista i botteghini di Hong Kong nel 2012, vantando un duetto di divi di grande richiamo come Tony Leung Ka-Fai e Aaron Kwok nei panni di due poliziotti pronti ad un diverbio fisico riflesso di uno scontro verbale che sostiene l’azione al ritmo di scoppiettanti fuochi d’artificio. Figlio di un action che declina l’introspezione interna in vigorosi colpi di proiettili, calci e sgommate, Cold War evidenzia un buon impianto tecnico che manca grossolanamente di sostanza. Lo spunto di una violazione nel sistema della sicurezza affidata al corpo di polizia si pone come espediente per inseguimenti, lotte e radiali procedure d’urgenza con relative contrapposizioni tra le forze dell’ordine che non sembrano collaborare positivamente alla difesa nazionale. La forte determinazione stilistica di questa scoppiettante opera prima penalizza tuttavia quella matrice melodrammatica degna di una discreta drammaturgia propria di tanti polizieschi made HK. Tutto ruota attorno alla rassicurazione patriottica del contenimento della crisi, una crisi che germina nell’organismo ospitante e lo spacca dall’interno confutando ogni certezza. Sta poi nell’eroe a tutto tondo risanare quella frattura per un glorioso ritorno all’ordine ed è in quel saluto erede dei tanti blockbuster a stelle e strisce che risiede la conferma di un impegno politico che sa risollevare gli animi. Nella prospettiva di rinsaldare quell’identità nazionale che lotta contro la disgregazione, i cineasti hongkonghesi puntano a ritrovare quelle caratteristiche locali per rassicurare gli spettatori, proteggendo un patrimonio culturale soggetto a diluirsi nella collaborazione con partner esterni al proprio specifico contesto. Lo sguardo fiducioso e aperto al mercato continentale non delude le attese di quel sapore tutto locale in grado di far breccia sul cuore e sui gusti del pubblico nipponico. In una simile ottica e con il patrocinio di una campagna promozionale garantita dal distributore Edko appare chiaro come Cold War risulti ad oggi la pellicola che ha registrato i più alti incassi dell’anno sul box office locale. Una gigantesca operazione commerciale che vuole ricordare al mondo tutta la forza della città più sicura dell’Asia. Non manca, poi, la prospettiva di un sequel per i numerosi “nostrani” fan.

Il trio comico più famoso della Cina viene scritturato per un prodotto libero da ogni nobile ambizione: Lost in Thailand di Xu Zheng evita ripiegamenti melodrammatici e punta dritto alla risata facile, desideroso di profilare un quadro d’evasione pura attraverso le fisionomie delle star, chiave di un successo strepitoso in patria con tanto di risultato empatico. Sullo sfondo esotico e un po’ kitch della Thai più turistica si scatenano colpi e contraccolpi di tre personaggi che perdono facilmente bussola e staffe. Il viaggio di peripezie si declina in un colorato effetto dominio che sa mantenere un discreto ritmo all’interno di una struttura narrativa cedevole. I numerosi punti deboli di uno script confezionato di cliché e stereotipi, senza troppi effetti sorpresa, riesce comunque ad ingranare, risollevando un pubblico ingrigito dagli stressanti fumi metropolitani. Grande punto di forza sta nell’abilità dei creatori di non prendersi troppo sul serio, riscontrando un esilarante successo completamente aderente alle dinamiche del mercato cinematografico cinese, che richiede personaggi e storie popolari in cui riconoscersi. In pieno stile cartoon.

Passato dalla produzione alla regia, David Cho si lancia in un progetto dai toni leggeri con relativa impronta autobiografica, forte di una buona sceneggiatura giocata sull’abilità degli interpreti. Con questo The Winter of The Years Was Warm, Cho parte dalle sicurezze di un lavoro che ne ha consacrato la fama – primo fra tutti l’acquisto dei diritti del film In the Mood for Love di Wong Kar Wai – per un territorio ancora sconosciuto. Dopo aver scritturato Kim Tae-woo e yeh Ji-won superando i limiti sulla fascia d’età che condizionano la scelta degli attori, il neo-regista sciorina una storia d’amore lontana da scontate esplosioni. La pellicola, di chiara matrice indipendente con un ristretto budget di partenza, punta ad un’ambientazione quotidiana dalle sfumature agrodolci che viaggia sulla strada Seul-Gangneung e ritorno, con note contemplative che esulano da qualsiasi contesto mainstream. Al di là di qualche calo di tensione, il prodotto riesce comunque a distinguersi in un panorama in notevole risalita e Cho può uscire a testa alta con un lodevole pollice verso.

Arrivata dalla Cina con furore, Jia Jia è un’isolente viziata che lascia la madre patria per partorire fuori rotta abbracciando il sogno americano nella speranza di fornire al nascituro quello che la propria terra non consente. Padrona di una lingua che non viene capita e di una carta di credito dal fondo illimitato, l’attrice resa nota al pubblico internazionale dal Lussuria di Ang Lee torna nelle vesti di una ragazzina abituata ad ottenere tutto quello che chiede, troppo cresciuta per piangere in pubblico ma ancora desiderosa di quelle cure e protezioni concesse solo ai bambini. L’incontro con un uomo immigrato, prigioniero di un matrimonio castrante, sarà l’input determinante per il salto ad uno status quo che se occupa qualche gradino in basso rispetto alle abitudini consumistiche e glamour, dove l’apparenza vince la sostanza, garantisce esattamente l’esistenza che promette. Finding Mr. Right di Xue Xialou profila un ritratto sincero di quanti sono costretti a recidere il cordone ombelicale e tuffarsi in un mondo dove nulla è regalato e solo la lontananza e il sacrificio permettono di accedere a quella maturità che è il primo passo verso l’indipendenza agognata. Convenzionale nello stile e nei toni, la pellicola è una delicata storia d’amore che non apporta nulla di nuovo alle tante commedie romantiche prodotte finora, tuttavia si smarca raccontando l’immersione di una realtà in un’altra straniera: restando conformi al titolo originale, Quando Pechino incontra Seattle.

Jod, un bandito dai modi gentili, eroe romantico figlio di una generazione di gangster che onorano antichi valori come l’amicizia, la lealtà e la gratitudine, ricorda le proprie vittime una ad una, come una lenta tortura auto inflitta. Al suo terzo lungometraggio dopo l’apprezzato Slice, Kongkiat Khomsiri realizza The Gangster, una pellicola che prende piede dalla vera storia di un criminale di Bangkok degli anni Sessanta e che lo consacra nell’Olimpo di una violenza estetizzante. Sullo sfondo di una Thailandia anni Cinquanta, governata dalle leggi di gangster duri e temerari che fanno propri certi modi yankee, si rilegge una generazione che subisce l’influenza di un’intera cultura, quella di una violenza rock’n’roll. La storia della mafia thailandese e dei suoi modi cavallereschi viene filtrata da quell’ondata pop che si riflette sull’impianto tecnico dell’ultima fatica di Konghiat. La transizione della cultura dalla violenza dei coltelli a quella delle pistole, la cultura giovanile e gli ideali dei banditi thai passano attraverso le note di Elvis Presley, i poster di Jeams Dean e un profondo senso di gioiosa appartenenza comunitaria. Remake dell’opera prima di Nonzee Nimibutr, più incentrata sulla figura di Dango che non su quella di Jod, The Gangster si imprime nella memoria per la grande sperimentazione stilistica che lo anima, dalle tecniche di montaggio alle scelte di ripresa alle modalità narrative, dalla fotografia alle varianti della messa in scena. Tendine e stacchi netti fanno da raccordo a uno stile che unisce documentario e fiction, su immagini che dal b/n virano al colore tanto accecante da sfiorare la stilizzazione, per un risultato sopra le righe che convince al di là – o per merito – della sua stessa teatralità.

Superati gangster, scambi d’appartamenti e fughe in Thailandia, a chiudere la seconda lunga giornata Far East abbiamo avuto Shackled, unico film indonesiano della selezione. Diretto dalla giovane regista Upi – vista nel 2010 qui ad Udine con The Last WolfShackled è un horror onirico dalle atmosfere lynchiane che, come il precedente The Gangster, recupera molto dell’estetica e del linguaggio cinematografico occidentali. Se però il film thailandese di Kongkiat Khomsir usava il ricalco stilistico per rappresentare un’influenza culturale, qui invece siamo nettamente dalle parti del cinema derivativo più arido, che ruba motivi, soluzioni visive e narrative ai principali epigoni del cinema “dell’assurdo” occidentale, da David Lynch a Richard Kelly passando per lo Scorsese di Shutter Island. Il risultato è un film estremamente curato sul piano formale – grande attenzione è prestata alle scenografie e all’illuminazione – ma assai frustante nella sua quasi totale assenza di elementi autoctoni. Forse l’origine di un lavoro così occidentalizzato può risiedere nell’inedito successo internazionale cui è andato incontro il cinema indonesiano nel 2012 – un nome su tutti, The Raid – ma considerazioni di sistema a parte Shackled potrebbe passare per uno dei tanti horror fotocopia americani, girato meglio del solito (recitato in compenso molto peggio) con l’aggravante che assieme col prestito linguistico sono stati acquisiti anche tutti i tipici difetti di sceneggiatura di operazioni del genere. Rimangono all’attivo alcuni scorci di una Giacarta notturna e allucinata, ma davvero troppo poco per salvare l’operazione.

Autore: Marta Gasparroni
Pubblicato il 20/01/2015

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