Far East 2013 / Day 4

Un lunedì decisamente criminale quello al Far East Film Festival, una giornata dominata da variegate atmosfere noir (dal gangster al parodico) e impreziosita dalla visione del primo grandissimo film della selezione, New World di Park Hoon-jung, nuovo autore di punta del cinema coreano.

Ad aprire la nostra giornata di visioni è stato il noir cinese Lethal Hostage di Cheng Er, film che avrebbe potuto farsi davvero notare se non fosse per la furbizia delle sue velleità artistiche, mal calibrate ma soprattutto disattese da una messa in scena spesso incoerente con il tono scelto per narrare il film. Lethal Hostage racconta infatti l’avvincente storia di uno scambio di droga finito male e del rapimento che ne consegue, del rapporto tra vittima e carnefice e di come esso possa mutare nel tempo, intessendosi attorno all’impellenza di una redenzione e assumendo forme di dipendenza impreviste. Usando come sfondo un traffico di droga tra Cina e Birmania, Cheng Er mette in moto personaggi sofferti e manchevoli, mostrati nella loro contraddittoria e rischiosa evoluzione con un minimalismo narrativo che taglia innumerevoli passaggi, affidandosi (finalmente) alle immagini e alla recitazione piuttosto che ai dialoghi per raccontare le evoluzioni interiori dei suoi protagonisti. Intento lodevole e in buona parte riuscito – il film trasuda l’ansia esistenziale che attanaglia tutti i protagonisti –, ma come dicevamo in apertura purtroppo contraddetto da controverse scelte di messinscena che ne rivelano la furbizia sottesa. Lethal Hostage è infatti carico di rallenti trascinati, vacui e ripetuti sguardi nel vuoto, lenti carrelli in avanti e una musica assai invadente che ne fanno un film bipolare, diviso tra un minimalismo narrativo e una retorica estetica estremamente pesante e barocca.

Di gran lunga più riuscito il successivo New World, miglior film visto sinora e forte candidato ad una vittoria festivaliera che gli auguriamo con tutto cuore (oltre ad una distribuzione italica, ma per quelle si sa, c’è molto da sperare…). Park Hoon-jung, il giovane regista cui dobbiamo gli script di I Saw the Devil e The Unjust, aveva esordito alla regia con The Showdown, film già molto promettente visto due anni fa qui ad Udine, che pur partendo da una sceneggiatura più debole rispetto a quelle affidate ai suoi colleghi rivelava una padronanza del mezzo decisamente notevole per un esordiente. Al suo secondo film da regista Park fa un prodigioso salto in avanti, deflagrando quel suo esordio vicino al kammerspiel teatrale in un film gangsteristico complesso ed estremamente ambizioso, capace di unire Quei bravi ragazzi e Il Padrino, la rappresentazione analitica del crimine organizzato nel suo farsi sistema (sociale ma soprattutto economico, con un nome della compagnia mafiosa, Goldmoon, che è tutto un programma) ad una narrazione epica di ascesa e conseguente perdizione morale (il cui finale richiama testualmente quello del primo capitolo della trilogia di Coppola). La storia di New World è il racconto corale di due sistemi in lotta tra loro, la polizia da una parte e il gruppo mafioso dall’altra, con la morte del capo dei capi a fare da miccia. Tocca infatti trovare un nuovo capo dell’organizzazione, e i due candidati più papabili sono il violento e impulsivo Chung e l’apparentemente goliardico Joong-gu (uno straordinario Perk Seong-woong, visto e apprezzato in The Unjust in un ruolo opposto a questo); tra i due però si immetterà il detective Kang (il Choi Min-sik protagonista di Old Boy, qui in gran spolvero), intenzionato ad usare tutte le sue armi per direzionare l’elezione a suo favore dopo che i capi della polizia hanno deciso di tentare di controllare, piuttosto che eliminare, l’immane struttura mafiosa. Tra i due fuochi si troverà Ja-sung, infiltrato di Kang ma anche amico fraterno di Joong-gu, e sarà la loro amicizia – unico barlume di umanità in un mondo in cui gli stessi poliziotti sacrificano senza troppe remore i loro infiltrati – a determinare dove finirà l’ago della bilancia, dal lato di un sistema o dall’altro, perché non si può essere per sempre gangster a metà.

Con un sguardo attento più al sistema che ai singoli personaggi, per quanto siano tutti ben caratterizzati grazie a ottime interpretazioni cariche di piccoli dettagli, New World conferma lo spessore artistico di Park Hoon-jung, che aiutato dal grande successo di questo film speriamo possa affermarsi definitivamente in futuro come nuovo grande autore del cinema coreano. Di tutt’altro genere ma appartenente alla stessa cinematografia è il primo film della serata di ieri, Juvenile Offender, ottimo esempio di cinema indipendente che coinvolge particolarmente, pur lasciando dietro di sé il dubbio che se qualcosa fosse andato diversamente ci saremmo trovati di fronti ad un altro grandissimo film. La storia, particolarmente drammatica ma portata avanti con uno sguardo limpido e privo di forzature empatiche (tranne qualche caduta sul commento sonoro nei momenti più cupi), è quella del giovane Jugu, orfano sedicenne che si prende cura del nonno gravemente malato. Sulla spinta delle classiche cattive compagnie, Jugu compie uno stupido reato e, trovatosi di fronte un giudice che crede di fare il meglio per lui, viene mandato per questo in riformatorio. Troncata vita sociale e carriera scolastica, Jugu riceve dall’istituto per lo meno una buona notizia, è stata ritrovata sua madre con la quale potrà andare a vivere. Per Jugu è una sorpresa però scoprire che la donna che lo ha abbandonato da piccolo ha poco più della sua età, che è una ragazza madre spaventata e scappata dalle sue responsabilità, priva di indipendenza economica ma anche animata da una grande forza di cuore che le farà tentare di aggiustare tutto. Purtroppo però non tutto si aggiusta, specie se sei sotto il livello di povertà, privo di amici e di educazione e con la fedina penale sporca; la società può diventare una vera trappola esistenziale (tanto da condannare chi la subisce alla reiterazione della colpa, dato che lo stesso Jugu prima di finire dentro ha messo incinta la sua giovane fidanzata) se non si riesce a trovare sul proprio cammino qualcuno che possa aiutare. Questo pare essere uno dei temi principali dell’interessante film di Kang Yi-kwan, opera seconda dopo Sa-Kwa del 2005: l’importanza fondamentale del contatto umano, dell’aiuto sodale, dell’intervento attivo di chi decide di smettere di stare a guardare; senza infatti, la forza di volontà potrebbe non bastare, specie quando tante sono le condizioni avverse nelle quali si è costretti a vivere. Nonostante quest’amara costatazione Juvenile Offender non è un pesante melodramma come potrebbe sembrare, ma vive anzi della luce e forza dei suoi due protagonisti, gli spendidi Seo Young-joo e Lee Jung-joo, alle prese con personaggi non facili ma dei quali riescono a trasmettere le tante sfumature. Diretto con un linguaggio registico dal forte sapore europeo, con una morbidissima camera a mano che segue sinuosa tutte le azioni, tenendo al centro della scena i corpi e i visi dei due attori, il film di Kang Yi-kwan è molto promettente per il futuro autoriale di questo regista, che dovrebbe soltanto imparare a scindere meglio il determinismo buono (il fatalismo, l’influenza delle condizioni sociali) da quello cattivo (la coincidenza, l’eccessiva circolarità del caso), unico vero difetto di un film comunque particolarmente valido.

A risollevare gli umori da un’opera comunque certamente non allegra è arrivata l’ennesima commedia giapponese, Key of Life di Uchida Kenji, questa volta però particolarmente azzeccata e quindi il primo film di questa nazionalità a convincerci pienamente quest’anno. Il film di Uchida, regista particolarmente apprezzato in patria per le sue commedia raffinate e mai eccessivamente grottesche, ruota tutto attorno ad un concetto opposto rispetto a quello del film precedente, dichiarando come sia il carattere l’arma vincente per cambiare la propria vita e portando in scena tale asserzione con l’ennesimo scambio di identità. Per uno scherzo del destino infatti Sakurai, attore fallito che ha già tentato il suicidio, e Kondo, apparente killer professionista che in realtà non uccide mai nessuno, accordandosi anzi con la vittima per una sua fuga clandestina ed una paga doppia, si scambiano la vita dopo che Kondo subisce una forte amnesia. Dal gioco degli equivoci che ne discenderà, ben congegnato e particolarmente curato nel suo evadere dalle soluzioni più grottesche e demenziali, entrambi usciranno cambiati, con una rivoluzione che – per uno di quei meravigliosi cortocircuiti cinematografici – non può che ricordare il Django di Tarantino. Tanto nel western tarantiniano quanto in questo Key of Life infatti è la recitazione la chiave di volta, il racconto dell’invenzione e la sua messa in scena sono gli elementi che caratterizzano già in partenza le vite dei due protagonisti ed è ad essi che la narrazione affida il ruolo palingenetico di risoluzione, lo strumento con cui sciogliere l’intreccio criminale in cui entrambi sono precipitati e tornare alla propria vita, solo apparentemente uguale a com’era prima.

Autore: Matteo Berardini
Pubblicato il 20/01/2015

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