Far East 2013 / Day 1

Canto per te che mi vieni a sentire

suono per te che non mi vuoi capire

rido per te che non sai sognare

suono per te che non mi vuoi capire

Gioia e Rivoluzione

Parafando gli Area potremmo dire che il cinema è una luce che riscalda la mente, ma anche che è con le sue immagini, con le sue storie e il suo linguaggio, che si combatte una battaglia che dura ogni giorno, 24 fotogrammi al secondo. Il cinema è lotta perché la cultura è una guerra, e portarla avanti significa credere in un mondo migliore forgiato dalla conoscenza. E’ per questo che i festival sono oggi quanto mai necessari, sono fronti aperti e cantieri di cultura, come ha ricordato ieri sera Sabrina Baracetti nella sua rituale presentazione di apertura di questa 15esima edizione del Far East Film Festival. Ed è sempre per questo che non stupisce come il Gelso d’Oro 2013 – il premio alla carriera annuo del Feff – sia stato assegnato a Kim Dong-ho, uno dei più importanti uomini di cinema della Corea del Sud e di tutto l’estremo oriente. Dong-ho è infatti lo storico direttore del Busan International Film Festival, che ha contribuito a fondare nel 1996 e ha diretto fino alla sua 15esima edizione nel 2010. Premiare Dong-ho significa quindi premiare un uomo capace di trasformare in una decina d’anni Busan in uno dei punti nodali dell’Asia cinematografica; significa premiare chi crede e vive nel potere palingenetico del cinema; significa premiare la resistenza.

Ad antipicare la premiazione è stato proiettato il primo cortometraggio di Kim Dong-ho, l’adorabile Jury, opera prima di tarda età che ha girato i festival di mezzo mondo e che proprio di questa realtà festivaliera si fa fotografia divertita e sincera. Dong-ho racconta infatti il dietro di quinte, il laborioso lavoro di discussione di una giuria alla prese con una scelta difficile; i film tra cui scegliere sono tre, ma un vincitore unanime pare una meta ancora lontana. Tra attrici sul viale del tramonto e registi storici (interpretati da personalità coreane che portano loro stesse sulla scena), critici stranieri spocchiosi o particolarmente sonnolenti, la discussione si protrae nel tempo, mentre ognuno giustifica la propria posizione declamando una precisa idea di cinema. Giocando con una realtà decisamente ben conosciuta, Dong-ho realizza così un ottimo cortometraggio, che con immagini eleganti e particolarmente morbide mostra come una definizione esclusiva di cinema non possa essere mai sufficiente. Il cinema può essere tante cose, di sicuro mai potrà esserne una sola.

The Berlin File è invece il vero inizio della nuova selezione, scelta particolarmente azzeccata che fa partire il festival nel migliore dei modi. Per capire l’interesse per questo film partiamo da qualche dato: superata la crisi degli anni precedenti, il 2012 è stato l’anno di un nuovo boom per il cinema coreano, che batte il proprio record di biglietti annuali venduti e soprattutto raggiunge con il proprio cinema nazionale la quota del 58,8 % del mercato. E il fenomeno non è di certo in calo, se consideriamo che questo The Berlin File, uscito lo scorso gennaio, è già il blockbuster d’azione coreano campione assoluto d’incassi, fulgido testimone di una cinematografia nazionale viva e pulsante, estremamente radicata nel tessuto industriale e sociale del paese. Presentato in questi giorni di forte tensione internazionale tra le due Coree, il nuovo film di Ryoo Seung-wan – visto due anni fa qui ad Udine con lo spettacolare The Unjust – è infatti un ottimo esempio di cinema di genere estremamente consapevole, ben calibrato nella fedeltà alle convenzioni ma aperto al rischio, all’inaspettato, e capace di nascere dalle tensioni nazionali senza finirne ideologicamente avvinghiato. Ambientato in una Berlino alla John Le Carré, The Berlin File è una serrata e adrenalinica storia di spionaggio internazionale, in cui agenti nord e sud coreani, uomini della CIA e del Mossad si trovano a lottare per districare un nodo di tradimenti ed ottenere l’accesso ad un fantomatico conto segreto. Uno dei meriti principali del film – specie in questi giorni in cui i Nord Coreani sono tornati al cinema come nemici e alieni assassini in Attacco al potere – Olympus Has Fallen – è il suo riuscire a prendere il meglio dal filone spionistico figlio della guerra fredda (contaminandolo con l’azione acrobatica orientale) escludendo però il tipico corredo di manicheismo che ne fece negli anni uno dei principali generi di propaganda; The Berlin File anzi si allontana tanto da una logica esclusiva noi/loro da mettere come protagonista assoluto della vicenda un coraggioso agente nordcoreano, mentre quello del sud, che appare per gran parte del film come un uomo irruento e fanatico seppur valido, finirà per affiancarlo in una svolta redentiva finale che porterà il film tra il buddy movie e il western. Inoltre ad orchestrare tutta la congiura non abbiamo la Repubblica Nord Coreana come sistema malvagio in toto, bensì solo una sua scheggia impazzita, un singolo la cui colpevolezza individuale permette di schivare esiti apertamente ideologici a favore invece di un discorso di comune avvicinamento. Ben scritto, girato con mano solida e privo degli eccessi tipici del cinema d’azione occidentale d’oggi (montaggio rapidissimo e confuso, onnipresente movimento a mano di una macchina da presa ipercinetica), e anzi dotato di un’ottima gestione degli spazi interni e delle sue geometrie, The Berlin File è il cinema di genere che ci piacerebbe un giorno (lontano) vedere in Italia. Per fortuna che nel frattempo c’è il Far East.

Di livello decisamente inferiore invece la seconda ed ultima proiezione della serata. Assente da Udine dal 2007 – l’anno del successo di A Drift in TokyoMiki Satoshi porta in anteprima mondiale qui al Feff il suo ultimo lavoro, It’s Me, It’s Me, commedia surreale dai toni kaufmaniani. Hitoshi è un giovane che, dopo aver compiuto una truffa telefonica grazie ad un cellulare rubato in un ristorante, vede il proprio mondo prendere una strana piega; la vittima della truffa infatti lo scambia per suo figlio, il proprietario del telefono, ma più che uno scambio di identità quella di Hitoshi pare essere una sua moltiplicazione. Infatti saltano fuori ben presto due copie di Hitoshi, in una proliferazione annunciata dai numerosi cartelli che tappezzano la città ed avvertono del pericolo di moltiplicazione dei roditori. Assieme ad una copia di sé più rigorosa e seria (super-io) e ad una più scanzonata e impulsiva (es), Hitoshi fonda così la sua piccola “nazione”, un posto isolato in cui vivere in solitudine con le copie di se stesso, dato che è ben più facile e tranquillizzante essere circondati da copie piuttosto che correre tutti i rischi derivati dall’aprirsi al mondo e agli altri. Peccato però che il film non sviluppi questi spunti, pur accennandoli, e inserendo anche una stramba storia d’amore con un’ambigua cliente del negozio in cui lavora Hitoshi – il cui marito, nel suo andare a caccia del giovane protagonista, porterà il film a quello che sembra un forte omaggio al Lebowski dei Coen – spinga invece sull’assurdo e il grottesco, lungo una strada che sfiora tanti temi non approfondendone nessuno, per un intreccio narrativo che verso i tre quarti dei suoi (decisamente troppi) 120 minuti comincia seriamente a girare a vuoto. Peccato perché le potenzialità nello spunto di partenza c’erano, ma forse non erano molte le possibilità di vederle realizzate se consideriamo che per Miki Satoshi tutta la vicenda altro non è che il racconto della perdita d’identità dovuta al furto improvvisato da Hiroshi all’inizio del film. Una lezione di morale abbastanza fiacca.

Autore: Matteo Berardini
Pubblicato il 20/01/2015

Articoli correlati

Ultimi della categoria