Valerian e la città dei mille pianeti

Besson guarda incantato al classico di Christin e Mézières e confeziona una space opera densissima e fuori (dal) tempo

In principio fu un fumetto, con le sue storie fantastiche e i suoi mondi infiniti da esplorare, a segnare per sempre un intero immaginario. Poi vennero le grandi produzioni cinematografiche ad attingere a quell’universo di possibilità e a creare epigoni più o meno originali (Star Wars in primis) per oltre un quarantennio.

Forse è per questo motivo che, paradossalmente, dopo la visione di Valerian e la città dei mille pianeti – primo, vero adattamento ufficiale dell’opera omonima scritta da Pierre Christin e disegnata da Jean-Claude Mézières nel lontano 1967 – si può cadere preda di un senso di déjà vu o, meglio ancora, dell’impressione di avere di fronte un’opera a sé stante, un trionfo pirotecnico anomalo ed eccessivo inevitabilmente fuori (dal) tempo.

Perché la monumentale, ultima fatica di Luc Besson pare voglia fare piazza pulita di decenni di evoluzione del genere – dalla struttura, ai temi, fino a quell’imperante gusto per l’autoironia e il citazionismo che pare l’unica strada, oggi, per fare fantascienza – ritornando, prepotentemente, all’origine di tutto, con l’intenzione, non da poco, di riscrivere le regole di un immaginario ritrovato e di (ri)fondare un intero mito attraverso una visione del mondo decisamente altra rispetto a quella dei blockbuster contemporanei (e statunitensi).

Nell’universo dell’agente governativo Valerian e della sua inseparabile assistente Laureline, c’è così tutto il senso di un cinema che vuole farsi mondo a se stante, denso e brulicante come Alpha, la città dei mille pianeti, simbolo stesso di tolleranza, rispetto e condivisione tra i popoli.

Un cinema umanista e multietnico, quello di Besson, dove la minaccia non viene dall’altro ma sempre dall’interno. Un cinema che guarda in parte, sì, all’Avatar di James Cameron, ma capace di conservare tutta la sua peculiarità, tra un romanticismo naif e riconoscibilissimo (fino all’immagine dei due amanti nella capsula, rimando esplicito a Il quinto elemento) – ormai cifra insopprimibile del suo autore – e una fiducia cieca nei propri mezzi, in un’immaginazione senza limiti, che abbaglia, ingloba, rapisce.

Immagine rimossa.

Certo, fare i conti con la fantascienza, oggi, senza tenere bene a mente la lezione di Star Wars o le degenerazioni estremamente consapevoli de I guardiani della galassia, può essere rischioso se non apertamente suicida; eppure sorprende la tenacia con cui il regista francese ignori (quasi) ogni influenza esterna perseguendo la visione originaria di un progetto da lui corteggiato almeno da un ventennio.

Poco importa allora se Dane DeHaan e Cara Delevigne, nelle loro schermaglie pseudo-amorose, non siano poi così affiatati, o sé l’accumulo di creature, mondi e situazioni sia insostenibile e spropositato per un film di poco più di due ore. Valerian resta uno sforzo espressivo e un’esperienza spettatoriale abnorme, una space opera turbinante e barocca, fedele allo spirito della sua fonte originaria e capace di regalare più di una sequenza iconica.

Sulle note iniziali di Space Oddity, in un antefatto che attraversa i secoli e celebra l’incontro (pacifico) tra culture e mondi differenti, o nella sequenza fortemente metacinematografica del mercato multidimensionale, va così in scena la dichiarazione d’amore per un cinema capace, da una parte, di tracciare con estrema chiarezza il proprio sistema di valori, dall’altra, di creare mondi, galassie e universi sempre nuovi, infiniti e vasti come l’immaginazione.

Autore: Mattia Caruso
Pubblicato il 25/09/2017

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