Untitled
Un viaggio senza fine ai confini della morte occidentale

Ai confini della Storia, ai confini della ritualità, ai confini dell’Occidente, al confine della vita e della morte, sul confine spaziale dove il genere umano si congiunge, riconoscendosi, al genere animale. Fuori dalle metropoli, lontano dalle verticali superfici specchianti dei grattacieli, lontano dall’irrealtà di numeri binari, lontano dalle destinazioni d’arrivo delle popolazioni in migrazione. Dentro a palazzi segnati dalle cicatrici della guerra, nei riti di trapasso e nel ricordo dei morti, in una famiglia, tra muscoli tesi che danzano, combattono, esultano, si abbracciano e poi si scontrano. Nelle definizioni della notte, tra desiderate luci calde e fameliche luci fredde, nei deserti, tra le onde del mare, ai margini di una fonte, nei sobborghi di una periferia, nel ghiaccio dell’Est, nel cuore di tenebra dell’Occidente. Il reale che nasce da quella notte poco prima della foresta, come la definirebbe Koltés, senza una metà, senza un inizio, senza una fine, senza un tema, senza titolo, uno sguardo sviscerato dall’esigenza di definirsi, e di tradursi in una classificazione definitiva. Untitled è il documentario ultimo, e risolutivo, di un regista che ha orientato lo sguardo verso gli angoli più reconditi, e bui, dell’antropologia umana. Michael Glawogger (Workingman’s Death, Whores’ Glory) è stato un avventuriero, e purtroppo la sua fine ce lo conferma, una personalità coraggiosa e vigile, uno sguardo lucido e duro, visceralmente reale. Dopo la premature morte del regista durante le riprese del film, la collaboratrice e storica montatrice Monika Willi recupera il suo diario di viaggio audiovisivo, ed utilizzando la tecnica del montaggio connotativo (serendipity, cioè la sincronia di caratteri contingenti che creano risultati cognitivi), cuce luoghi distanti, l’Africa, l’Italia e i Balcani; fa passare il filo della significazione tra le asole di corpi distanti, gli uni dagli altri, creando estensioni ellittiche di smisurata valenza poietica.
All’inseguimento di un reale che si ricorda, e si registra, solo quando accade, quando si palesa allo sguardo diegetico dell’osservatore, pedinando soggetti che compiono traiettorie trasversali, per «non aspettare, ma continuare sempre a guidare, perché è solo attraverso il maggior movimento possibile che le storie arrivano da te» (Glawogger). Un movimento centripeto mosso verso il nucleo della significazione, in balzi entropici di coincidenza semantica, propagato da sintesi additive di onde quadre, sonorità composte da Wolfgang Mitterer, che si stratificano in armoniche dissonanti, elettroacustiche, tra il registro classico, e soave, e l’asprezza dura dell’elettronica. Il contrappunto audiovisivo costruito dalla Willi e da Mitterer si definisce in un racconto di viaggio, epistolare, fluido, integrativo, volgendo in un’opera aperta così come l’aveva teorizzata e desiderata Glawogger. Un documentario radicale, che è nato senza aspettative, senza volersi per forza costringere in un tema, in un titolo, «i settantuno giorni di riprese hanno prodotto scene di ricerca, narrazione e documentazione. C’erano persone, animali, paesaggi e edifici, di tenebre e di fuoco, di paradisi remoti, di vita piena di colori. Li ho visti come un codice poetico che mostrava cambiamento e trasformazione» (Willi). La ritualità dei gesti, delle manifestazioni religiose collettive, un codice antropologico che codifica il tempo e lo spazio dell’abitante terrestre, definendo i ritmi e le credenze della collettività e singolarità. Untitled è un documentario che oltrepassa i margini del concluso, evadendo dagli interstizi di una definizione, in sguardi liberi ed aerei, in possibilità potenziali svincolate da qualsivoglia limite espressivo. Untitled decanta la morte del cigno, questo meraviglioso uccello acquatico, simbolicamente occidentale, che muore ai bordi di una strada periferica, e che termina il suo tragitto nel cuore addomesticato, ed opportunista, del capitalismo.
Se nei precedenti lavori di Glawogger è la pulsione alla vita ad essere al centro dell’attenzione, descrivendo il lavoro che rende vivi ma che rischia di sopraffarti (non solo fisicamente ma anche eticamente), in Untitled il fil rouge è il senso della deriva scopica che si proietta nella fine, mortifero termine preso in ostaggio, ciclicamente, da una nuova rinascita. Un reale da far fluire, lasciando che il filo della narrazione si svolga davanti all’obiettivo, senza un focus, disponendo solo di una simmetria tripartitica (soluzione adottata quasi sempre dal regista austriaco), e comunque libero di muoversi e di spaziare nei campi di una realtà contemplativa che avvicina il genere umano al quello animale: abitanti entrambi di una terra sita al confine del mondo.