Tir

“E’ seguita poi la fase dell’autostrada come città, una città che si estende ininterrotta da un’estremità all’altra del continente, dissolvendo tutte le città precedenti in quegli informi agglomerati che affliggono oggi i loro abitanti”

(Marshall McLuhan, Capire i Media – Gli strumenti del comunicare

E’ un film di strade, Tir. Nell’impossibilità di una dimora stanziale, di un’ordinarietà fissa, stabile, circoscritta all’interno di un territorio riconoscibile, lo spazio diviene il non-luogo per eccellenza: non più territorio da vivere ma ambiente di passaggio, asfalto rovente dove accelerare. Una realtà in movimento, intravista dal finestrino del tir che dà il titolo al film di Alberto Fasulo.

In una società sempre più specialistica, dominata dalla logica del frammento, il compito del viaggio è quello di ricompattare la visione, di uniformare lo spazio in un tutto indifferenziato, ridonandogli quel senso di continuità che sembrava perduto. Il protagonista di Tir non vive, ma passa e percorre, abitando inquieto all’interno di una casa mobile, di una cella slegata dal mondo esterno che può comunicare solo attraverso l’uso del cellulare. D’altronde lo strumento di trasporto diviene mezzo di comunicazione, identificabile subito con una determinata identità sociale. Ma l’aspetto sorprendente di Tir risiede nel mappare attraverso la segnaletica stradale un percorso interiore, un’individualità inquieta che non sa più che strada prendere.

Branko è un camionista che lavora per un’azienda di trasporti, il suo tempo è cifrato dalle miglia che percorre. Un lavoro distaccato, mortificante, assurdo nel suo dover scarrozzare materiale di ogni tipo (perfino maiali!) lontano da qualsiasi contatto umano: quando si separa dal collega, singolarità più fragile e pulsionale, Branko vive in un tempo altro, che è quello dei lunghi silenzi e dei sibili stradali. Dev’essere veloce ed efficiente, anticipare i tempi se serve, fermarsi solo per piccole pause dosate e prestabilite. Eppure il suo sguardo tradisce ogni tipo di automatismo cercando di opporsi all’alienazione quotidiana: parla con la moglie a miglia di distanza, che si sente sola e trascurata. Parla con il figlio e accontenta subito le sue richieste economiche, perché gode di un entusiasmo altrui che non riesce più a vivere sulla sua pelle.

Tir è il road-movie ai tempi della crisi economica: il suo viaggio è in tutto e per tutto un percorso assurdo. In questo senso è interessante notare come sia cambiata l’accezione di assurdo all’interno del meccanismo del road movie: se ieri il carattere surreale della narrazione, che fosse un noir o un racconto di formazione, era legato all’idea di un viaggiare che era un vagare privo di meta, a un detour che significava perdersi, oggi l’assurdo nasce dall’idea stessa di una meta: Branko viaggia per arrivare in posti prestabiliti, scaricare materiale e rimettersi in viaggio. I suoi capi sono presenze assenti che non incontra mai ma che lo guidano telefonicamente. Il deragliamento è tutto interiore e nasce da un percorso preciso, mappato dal navigatore. I km rappresentano la monotonia di un viaggio assurdo proprio perché ha un obiettivo. Ecco allora che Tir rappresenta un’operazione surreale, dal momento che è la stessa realtà che racconta ad esserlo.

Certo, come in ogni road movie che si rispetti sono previste delle soste: tappe intermedie fondamentali dove il protagonista si scontra con se stesso e con un suolo che è scomparso da sotto i piedi. Branko mangia, si lava, dorme, cucina all’interno del camion e finisce per brancolare nel buio: rivelazioni di un’umanità mai assopita, che forse aveva altri sogni e aspirazioni, ma che ha famiglia e deve sbarcare il lunario, anche se si tratta di fare un lavoro che lo esclude da tutto il resto. L’umanità dilaniante, tutta implicita, elaborata, soppressa del protagonista ha una forza incredibile.

Perché un enorme pregio del film è quello di sapersi prendere i suoi tempi, di non cedere ai ricatti di una narrazione più semplice ed immediata, ma vivere di atmosfere, lavorare sull’empatia. Da questo punto di vista ha poco senso il continuare a chiedersi se si tratti di un documentario sulla nostra povera, miserabile Italietta oppure un film di finzione. Tir è il mirabile esempio di un’opera che ha superato queste classificazioni binarie ed anacronistiche, che mischia linguaggi in fin dei conti mai stati così diversi. Quello che conta qui è lo sguardo, l’autenticità dell’operazione, la verità di ciò che si vede davanti. Lontano da una rappresentazione conciliata e fasulla, Tir è un film doloroso e sospeso. Si finisce a trasportare maiali mentre il proprio passato di maestro sembra ormai lontano anni luce: ogni possibilità di ritorno è negata per la stessa ostinatezza, per la stessa tenacia di Branko, spettro stradale lontano dalla famiglia.

Fa piacere che sia stato dunque Tir a vincere il Marc’Aurelio al Festival di Roma 2013, perché è un film ibrido e importante. In molti hanno parlato di differenze tra realtà e finzione ma per noi l’aspetto più interessante si ritrova proprio qui: non c’è più (o meglio, non c’è mai stata) alcuna differenza né esiste motivo per rintracciarla. Quello che Tir rappresenta è primo di tutto un bel film, il cui dolore, la cui disperazione, è una piccola luce alla fine del tunnel. E’ la storia di un uomo come tanti che rappresenta, finalmente, cosa significhi vivere in Italia ai tempi della crisi economica, senza la retorica o le facilonerie di una televisione espansa. Cinema di pura sottrazione che trova la sua forza in un’autenticità, in un’onestà a tratti commovente. Paradossalmente la critica sterile che si fa al film, al suo girare a vuoto, è proprio il suo maggiore punto di forza: non può esistere nessun arco di trasformazione del personaggio, nessun autentico cambiamento. Si parte per strada e si finisce per strada, e nulla è poi cambiato. Non si accelera mai, si avanza a media velocità, privi di stimoli e nuovi umori. Rimane solo uno sguardo smarrito tra strisce ed asfalto, intriso di malinconia ed umanità.

E quando l’Italia è in grado di produrre un cinema come questo allora è sacrosanto che venga premiata.

Autore: Samuele Sestieri
Pubblicato il 16/08/2014

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