Suite Francese

Il capolavoro nascosto di Irene Nemirovky torna al cinema in un'intensa veste sentimentale che adotta con misura gli stilemi del genere senza mai abusarne

A pensarci adesso sembra assurdo, ma dieci anni fa in Italia non si sapeva nemmeno chi fosse Irene Nemirovsky. Solo la tardiva quanto provvidenziale pubblicazione nel 2005 da parte della casa editrice Adelphi di Suite Francese, opera inedita riscoperta un anno prima in Francia, aveva rivelato un prodigioso talento letterario che la Storia era quasi riuscita a dissimulare. Ora che le librerie traboccano dei romanzi e racconti della scrittrice, nata in Ucraina, vissuta in Francia e morta in un campo di concentramento a nemmeno quarant’anni, sono venute alla luce anche le origini rocambolesche del suo romanzo più celebre, rimasto prima chiuso in una valigia e poi conservato senza mai essere letto dalla sua primogenita, Denise, convinta che si trattasse di un diario materno troppo doloroso per essere affrontato. Avendo concordato però, negli anni Novanta, di donare il manoscritto a un archivio francese, la figlia si decide infine di dattilografarlo, scoprendo un’opera molto diversa da quella che immaginava.

Suite Francese è infatti una saga sulla Seconda Guerra Mondiale che la Nemirovsky riuscì a completare solo nelle prime due parti, Temporale di Giugno e Dolce (il progetto originale prevedeva altre tre sezioni). L’intento grandioso era di proporre un romanzo che raccontasse in contemporanea con lo svolgimento degli eventi reali, dall’assedio di Parigi nel 1940 all’occupazione tedesca nelle campagne, tutte le diverse reazioni che la guerra aveva provocato negli abitanti francesi. Odio, paura, resistenza, ma anche rassegnazione, egoismo, connivenza col nemico: ogni piccolo impulso meschino o coraggioso che può nascere dal trovarsi assediati e a rischio di vita, venne tradotto in una prosa brillante e coinvolgente che oggi conquista il lettore.

Adesso che esce in sala l’attesa versione cinematografica del libro è evidente che, dato lo statuto di opera incompleta che caratterizza il testo, Suite Francesesia ben più di un semplice adattamento per il grande schermo. Il regista Saul Dibb ha operato in tal senso una scelta ragionevole: prendere dall’opera originale una singola storia fra le tante raccontate e costruirci sopra il film, inventandosi di sana pianta un finale che potesse offrire un racconto dalla struttura risolta. Da Dolce ha dunque estrapolato le vicende di Lucille Angelliere (Michelle Williams sempre in stato di grazia), una giovane donna costretta a vivere in un piccolo paesino di campagna con la dispotica suocera (Kristin Scott Thomas in attesa che il marito torni dalla guerra. Dalla Parigi assediata giungono a frotte i primi rifugiati, e, in un secondo tempo gli stessi conquistatori tedeschi, che rivendicano per sé un posto nelle case francesi fino all’arrivo di nuovi ordini. Anche la famiglia Angelliere è tenuta ad ospitare un comandante, Bruno von Falk, e dopo la prima iniziale diffidenza Lucille - come altre donne rimaste sole – inizierà a provare una strana empatia per un uomo che si è rivelato gentile, sensibile e in qualche modo affine al suo carattere, pur rimanendo sempre un nemico.

Le guerre non si svolgono mai solo sui campi di battaglia: c’è un’altra lotta che si svolge nelle case rimaste semivuote, intrapresa dalle famiglie dei soldati partiti per il fronte e costituite perlopiù da donne, vecchi e bambini. Suite Francese racconta tutto questo collocandosi consapevolmente nella cornice sentimentale del racconto amoroso. È questa una scelta che sembrerebbe condannarlo a un numero ristretto di appassionati, che solitamente viene immaginato costituito da un pubblico femminile sospirante, fazzoletto alla mano, per la straziante storia d’amore fra due persone che non dovrebbero mai amarsi. Mettendo da parte tutte le speculazioni su come la concezione della spettatrice donna possa rivelarsi una costruzione culturale oramai decaduta, non ha alcun senso disdegnare un genere a partire dalla propria identità sessuale. Semmai è la società che cerca di costringere il pubblico in rigide categorie di genere, secondo un circolo vizioso: gli uomini crescono guardando film da uomini e imparano ad amarli, disegnando quelli “per donne” e viceversa. Così, Suite Francese potrebbe alienarsi a priori una grossa fetta di spettatori maschili solo in virtù del suo essere una storia romantica con delle protagoniste femminili. Il fatto però è che prima di essere un film sentimentale l’opera di Saul Dibb è un buon film e basta, che si appropria di alcuni elementi ricorrenti del genere melò senza lasciarsi sopraffare dall’affettazione, e offre una storia emotivamente equilibrata e verosimile che tratta un tema universalmente noto: lo smarrimento delle persone che si trovano in guerra, vittime o carnefici che siano. Decidere che questo riguarda solo una metà della popolazione è stupido e miope, e servirebbe solo a privarsi di un’opera che merita molto di più.

Autore: Veronica Vituzzi
Pubblicato il 10/03/2015

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