
Alan e Ines sono adulti, con un curriculum da professionisti seri e preparati nel proprio lavoro, ma quando si siedono davanti al computer per chattare usano un linguaggio adolescenziale, tronco, che dell’italiano ha solo una vaga forma. Esternamente aderenti al contesto sociale dove operano, sono privi in realtà della capacità di trovare parole adeguate per raccontarsi agli altri, sostituendole con mielose frasi fatte o di circostanza, buone solo per far colpo su altre persone altrettanto incapaci di saper spiegare cosa le consuma in segreto. Alan vive in un magazzino da quando la moglie, stanca di fare da parafulmine ai suoi malumori lavorativi, l’ha lasciato. Incapace di comprendere il suo disagio, l’uomo la perseguita senza voler accettare spiegazioni, e nel tempo rimanente ritrae su carta figure angosciose e contatta con approcci banali in serie chiunque trovi sui social network, del tutto disinteressato a chi si nasconda dietro l’avatar. Ines abita in una casa linda e curata dove ogni cosa è al suo posto, ma è del tutto incapace a farsi spazio nel mondo, malgrado i discorsi motivazionali che il coach della sua azienda – un delirante guru che incita alla dedizione stakanovista con balli e corse sui carboni ardenti – le urla dallo schermo del pc. Internet è allora il rifugio, il bozzolo dove poter conoscere qualcuno senza dover rivelare le proprie fragilità, un modo per filtrare la propria voce reale: quella violenta, spesso tradotta in urla di Alan, e quella fievole, quasi afasica della timida Ines.
A metà fra racconto sociale e storia personale, St@lker poggia le sue basi sulla sentita interpretazione dei suoi personaggi, che scontano però le conseguenze di una scrittura maldestra che non sa ben destreggiarsi fra gli eterogenei temi che si propone si trattare: il fenomeno del cyberstalking, la follia delle aziende che tentano di costruire dipendenti burattini pretendendo di fare del posto di lavoro un sostituto della famiglia, le contraddizioni della comunicazione virtuale divisa fra sincerità e menzogne estreme. Per accentuare l’atmosfera isterica del nostro presente, il regista Luca Tornatore infila due figure onnipotenti che in modi diversi richiedono ai protagonisti l’assoluta obbedienza e abbandono della propria volontà: il coach che sprona Ines a una fiducia in se stessa finalizzata esclusivamente ad aumentare il numero di contratti che deve procacciare per lavoro, e una mistress sadomasochista senza volto che, frustino in mano, sevizia Alan per purificarlo, a suo dire, del libero arbitrio che gli arreca tanta angoscia. Una scelta narrativa, questa, che dovrebbe contagiare l’animo dello spettatore con la consapevolezza della rabbia impotente che molti oggi provano in un ambiente che costringe piuttosto che liberare l’individuo, ma che alla resa dei fatti rende il film solo esageratamente contorto al limite del ridicolo.
Come se, passando dall’idea alla realizzazione, St@lker si fosse perso fra i mille rivoli offerti dal soggetto; il tentativo di rappresentare sullo schermo la malattia mentale della società contemporanea – come Ines è troppo spaventata dal mondo, Alan è troppo arrabbiato con esso – si concretizza in un nulla di fatto caotico e frammentario che disattende i propositi iniziali. Niente da eccepire sulla buona volontà di regista, attori, e in generale sul lavoro sull’interpretazione e sulla creazione di interni che echeggino delle personalità dei personaggi che li abitano, ma il risultato finale non solo non convince, ma lascia anche lievemente attoniti.