Spectre

Replicando in peggio le riflessioni di Skyfall, Spectre nasconde sotto la sua decostruzione il timore di confrontarsi con una nuova serialità che sia autonoma e classicamente contemporanea.

Oltre a rimanere, ad oggi e probabilmente a lungo, il miglior episodio della saga, Skyfall è un film con il raro dono di saper miscelare al meglio spettacolo e riflessione teorica, decostruzione del mito e sua autentica celebrazione. Un equilibrio da cui è nata una sorprendente epica della resurrezione e della vittoria dell’icona sul tempo e la morte, totem affrontati e superati in un viaggio dell’eroe concluso proprio con il ripristino di molte delle caratteristiche più classiche della tradizione, da un M maschile a Moneypenny, dalla Walther PPK all’Aston Martin. Quello consegnatoci dal primo 007 di Sam Mendes era quindi un personaggio reinventato in piena consapevolezza, un’incarnazione fresca e assieme tradizionale capace di far dialogare la classicità con le nuove esigenze del blockbuster contemporaneo – su tutte la crescente importanza della fisicità e dell’azione spettacolare.

Difficile a questo punto mettere a tacere le aspettative di fronte l’uscita di Spectre, ventiquattresimo capitolo della saga che nel suo reintrodurre l’organizzazione mondiale di Ernst Stavro Blofeld avrebbe dovuto sancire la definitiva ripartenza del nuovo canone bondiano. Altrettanto difficile però nascondere la delusione della visione, per un film che cerca con tutte le forze di replicare l’operazione del precedente risultandone alla fine una pallida e soprattutto confusa fotocopia.

Per definizione un personaggio facente parte del Mito è a suo modo immortale, è una creatura oltre il concetto di fine, e quindi di tempo e di morte. E’ già tanto se il Mito ha un passato, al quale si può fare riferimento come ad un elemento che doni un carattere immutabile al personaggio. Dall’interno di questi confini nasceva la decostruzione di Skyfall, e sempre dal passato e dal trauma della perdita (tutte le donne scomparse che ritornano dal giorno dei morti che apre il film) nasce Spectre, che sullo stesso rapporto tra icona e morte costruisce la sua narrazione, una dicotomia sotterranea alla quale si intreccia il più evidente contrasto tra la dimensione analogica e vecchio stile della componente umana (il reparto doppio zero) e l’innovazione tecnologia della morte digitale, che trova la sua incarnazione più algida nel programma dei droni. Percorsi tematici che sarebbero anche carichi di senso se non fossero già stati trattati in Skyfall, che meglio di Spectre riflette sulla natura immortale del mito e sul suo rapporto con il progresso.

Paradossalmente Spectre sembra invece ignorare il traguardo raggiunto dal suo film precedente, e si carica dell’ambizione di racchiudere tutto il Bond di Daniel Craig (felino e assieme rapace, ormai perfetto nel personaggio) all’interno di una cornice che ancora una volta ne decostruisca il passato all’insegna di un intimismo che riscriva la tradizione. Fingendo di non sapere però che questo stesso risultato era già stato conquistato dal capitolo appena trascorso, il cui merito era proprio restituire ai suoi creatori un personaggio rigenerato dal suo confronto col passato (e quindi lo scorrere del tempo e la morte e la perdita..) e pronto ad essere impiegato, di nuovo, in serie.

Il James Bond che chiudeva Skyfall era l’incarnazione perfetta per riportare sullo schermo la più classica delle avventure bondiane, un traguardo raggiunto grazie ad un andata e ritorno nell’Ade dopo il quale non serviva certo un nuovo confronto con tutti i temi ormai assimilati e dati per sconfitti. Non è una gran sorpresa allora che l’elemento attorno al quale è stato in teoria costruito tutto Spectre, la riscrittura della biografia di Bond e la sua nuova relazione con Blofeld, si sciolga nel corso della narrazione senza alcun pathos e in un clima di generale svogliatezza – una stanchezza che sembra investire anche Christoph Waltz, il cui debole villain è appiattito più che mai in una serie infinita di faccette da basso inventario.

Incapace di staccarsi dai procedimenti di Skyfall (forse per timore del confronto, forse per carenza di idee), Spectre fallisce come Quantum of Solace nel costruire un proprio nucleo tematico e soprattutto drammatico, si rivela eccessivamente ombelicale, refrattario ad aprirsi al nuovo e ad impiegare sul campo le conquiste raggiunte in precedenza. Certo, se la saga di James Bond è oggi il meglio che l’azione hollywoodiana abbia da offrire lo si deve soprattutto alla volontà di raggiungere un traguardo difficilissimo, rafforzare il mito proprio attraverso il confronto con la sua mortalità, e tuttavia da qui si doveva adesso andare avanti, senza tentare piuttosto un’ennesima traiettoria centripeta, ricurva in sé stessa.

E se questa critica può apparire troppo astratta e lontana dalla materialità del film, è fin troppo facile notare come piuttosto la stessa confusione nella gestione della mito ritorni in una realizzazione pratica molto sfilacciata, capace di calare la sequenza di apertura forse più bella di sempre ma di perdersi poi via via per strada. Anche l’inedita insistenza con cui si guarda questa volta alla tradizione bondiana, le citazioni letterali e gli ammiccamenti, appaiono giustificati solo all’interno di una logica ludica e ammiccante che stanca abbastanza in fretta, lasciando dietro di sé l’impressione di un film incerto nella sua identità, dietro la cui volontà di tornare a decostruire si cela forse la paura di confrontarsi con una sfida durissima: incassare gli obiettivi maturati e trasporre la riscrittura in una nuova serialità autonoma e classicamente contemporanea.

Autore: Matteo Berardini
Pubblicato il 08/11/2015

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