Speciale Oriente #1 - Antiporno
Sion Sono usa il linguaggio del cinema erotico per firmare il suo film più politico.
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Opera commissionata come parte di un progetto della casa di produzione Nikkatsu per commemorare il cinema erotico giapponese degli anni Settanta e Ottanta, Antiporno potrebbe essere letto come l’ennesima variante della melassa nostalgica in cui molto del cinema postmoderno si è impantanato. Invece, dietro gli stilemi e i corpi del roman por(u)no – filone cinematografico tra l’erotismo e la pornografia – Sion Sono costruisce un discorso ambizioso e disturbante sul cinema e sulla politica dell’immagine.
Antiporno mette in scena il rapporto sadomasochistico tra Kyoko (Ami Tomite, ormai stabile collaboratrice di Sono), pittrice e artista della sessualità con il gusto della dominazione, e la sua sottomessa assistente Noriko. Kyoko dipinge, posa per sessioni fotografiche e umilia i suoi sottoposti, confessa i propri traumi famigliari e urla la propria vitalità allo spettatore oltre lo schermo (o il proscenio: mai come ora, il cinema di Sono è teatrale, paradossale kammerspiel). La finzione si spezza quando un regista fuori campo interrompe l’azione e i rapporti di forza si ribaltano: Kyoko è una giovane attrice insicura e maltrattata, Noriko la dominatrice e professionista affermata. Il lussuoso loft è un set cinematografico dove si mettono in scena, e si praticano, molestie sessuali e fantasie maschili. Realtà e illusione si rimescolano, fino a collassare e a farci dubitare che l’intera visione sia l’incubo di una donna che cerca il proprio spazio in un mondo a lei ostile.
Lo sguardo di Sion Sono ha indugiato innumerevoli volte sul corpo femminile, la violenza sessuale e la perversione. Chi conosce il suo cinema sa bene che la grammatica pornografica è usata da Sono in senso mai banale, spesso sovversivo, come critica o satira del mondo che l’ha generata nel momento esatto in cui ha tracciato i confini tra norma e devianza. Il pervertito guardone di Love Exposure, in altri termini, è il figlio inevitabile e necessario dell’ipocrisia morale della religione cristiana. Antiporno adotta la stessa strategia, portandola alle estreme conseguenze: mette in scena il linguaggio della pornografia, negandone l’erotismo e minando il piacere della visione attraverso le interferenze e gli eccessi che debordano nella sua cornice. L’identificazione con i personaggi è impossibile e ogni mimetismo, anche blando o filtrato dal prisma della postmodernità, è interrotto in favore di un distacco critico e di un perenne straniamento che rimanda direttamente a Brecht. Le forme della pornografia diventano forme politiche: umiliazioni, nudi rapporti di potere, manipolazioni che oggi, a pochi mesi dallo scandalo Weinstein, suonano ancora più sinistre.
Lo spazio claustrofobico del loft è una elaborata illusione, un porno-rama patriarcale dalle superfici curve e senza alcuna breccia, ergonomico come la più letale delle ideologie. Di fronte a questa tragedia, Sono non ha risposte pronte o programmi: può però urlare, dissacrare e ridere di questo mondo. In Kyoko vediamo le pulsioni suicide, il distacco dal nido famigliare (e dalla società, di riflesso), il desiderio di redenzione e la ribellione cieca che accomuna così tanti dei personaggi del regista giapponese. La perversione, e la sessualità in generale, diventano forme di adattamento e tattiche di resistenza: nel sesso di Antiporno, e di molti dei personaggi dei film di Sion Sono, non c’è nulla del desiderio e della sensualità se non la pulsione di morte o, meglio, la petite mort di cui scrivevano Barthes e Bataille: orgasmo come discontinuità, incursione nel vuoto, perdita temporanea di quell’identità che inchioda e distrugge.
L’ultra-pop di Sion Sono, quando ben direzionato, sembra costruire un orgasmo simbolico che spezza la continuità del mondo e costringe a leggerne le forme e i sogni: in questo mondo colorato, Kyoko trova il palcoscenico ideale per dichiarare che "gli uomini di questa nazione sono merda", "la libertà che hanno istituito è merda" e "il mondo che sognano è merda". La metafora scatologica, aperta nei primi minuti del film quando la protagonista si chiede se ha già defecato, è compiuta.
Antiporno è un film iterativo che mette in scena la stessa situazione con minime variazioni. Come nei film Nikkatsu dell’epoca, è costruito sul vincolo di un rapporto sessuale o una scena di nudo ogni dieci minuti. Un eterno ritorno del quale Kyoko sembra terribilmente consapevole, e che il trucco del metacinema (il film nel film, tattica che Sono aveva già adottato in Why Don’t You Play in Hell?) sottolinea ulteriormente. La protagonista è intrappolata dallo spazio fisico del loft, da quello produttivo del set cinematografico e da quello simbolico delle varie arti che Sono interpella nel corso del film, dalla fotografia alla pittura. In questo magazzino di immagini e di levigate superfici, il referente dell’arte sembra sparire. Chi è Kyoko? I fotogrammi o le pennellate del suo personaggio ne rappresentano, almeno in parte, l’identità? O ne denunciano, piuttosto, la definitiva scomparsa dallo spazio dell’esistenza, una dissoluzione nello spazio dei segni?
In questo film complesso e rabbioso, pervaso da rara urgenza e sincerità, Sion Sono ci costringe a guardare delle immagini a noi famigliari in modi nuovi e problematici. Al tempo stesso, il regista non rinuncia alla magia del cinema: in ognuna delle sue sequenze, fino all’esplosione di colori del finale, Antiporno usa l’eccesso e il grottesco come armi estetiche e politiche. Forse, per riuscire ad inquadrarlo, è necessario tornare a nomi come Oshima, Buñuel e Ferreri: ad autori che non temono di usare la meraviglia e il disgusto per rivelarci un frammento di verità, oltre il velo delle illusioni.