Rubber

Perché non possiamo vedere l’aria che ci circonda? Per nessuna ragione. Perché allora alcune persone amano ed altre no? Per nessuna ragione. Ma perché tutte le cose colorate di viola non sanno di more? Per nessuna dannatissima ragione. Ci si chiederà a questo punto, perché un’introduzione del genere? Per una semplice ragione, ovvero che oggi parliamo proprio del no reason, del fatto che vita, finzione, racconto filmico (e non) sono colmi di cose senza alcuna ragione, e da esse, da questo vuoto di significato esce rotolando la retrovisione di oggi, Rubber di Quentin Dupieux.

Presentato nel 2010 nella settimana della critica di Cannes, Rubber è il secondo lungometraggio del musicista e produttore francese Dupieux, conosciuto per la sua attività musicale tramite lo pseudonimo di Mr. Oizo. Dopo un primo lavoro nel 2008, Steak, Dupieux realizza nel 2010 questo strambo oggetto qual è Rubber, una seconda opera che riscuote un’attenzione discreta a Cannes guadagnandosi inviti per altri prestigiosi festival, su tutti il Sitges spagnolo e l’After Dark di Toronto; a riprova di quest’attenzione internazionale il terzo lavoro del francese, Wrong, è stato portato in concorso al Sundance di quest’anno, da poco conclusosi. Inutile dire che anche questa volta non siamo di fronte ad una massiccia distribuzione internazionale, tanto meno italiana; il film è però disponibile per una visione casalinga, visione che non potrà lasciare indifferente lo spettatore dato che la storia è quella di un pneumatico assassino. Sì sì, proprio quello, non si tratta di un refuso: un pneumatico assassino, per di più dotato di poteri psichici che manco fossimo in Scanners.

Un deserto come tanti, in cui il vento spazza la terra brulla e i raggi di sole si riflettono sulle dune di polvere; in mezzo al nulla un uomo, con in mano una ventina di binocoli. A breve lo raggiungerà una macchina, che si fermerà solo dopo aver colpito e distrutto una serie di sedie poste a slalom lungo la strada; a veicolo fermo esce dal portabagagli uno sceriffo americano, modello texano classico, biondo e Ray-Ban a specchio, che prende un bicchiere d’acqua dal suo conducente e comincerà a rivolgersi direttamente al pubblico, sguardo in macchina. Parlerà di come i film e la vita siano pieni di cose che sono tali senza alcuna ragione precisa, e che questo stesso film che stiamo per vedere è “un omaggio al ‘per nessun motivo’, il più potente elemento di stile”, dopodiché getterà a terra l’acqua, risalirà a bordo del portabagagli e se ne andrà, mentre un cambio di inquadratura ci rivela che esiste veramente un pubblico, parcheggiato lì nel deserto, con un piede dentro e fuori la diegesi. E’ quindi solo a questo punto, solamente dopo aver concretizzato l’atto di osservare e fatto partire la mise en abyme che inizia il film nel film, la storia di Robert il pneumatico. Robert è una ruota abbandonata nel deserto, rifiuto tra i rifiuti di una discarica abusiva, che di punto in bianco prende vita. Dopo un veloce percorso di apprendimento sul suo potere distruttivo Robert scopre di avere anche poteri psichici, la capacità di far saltare in aria la testa alla gente. Da qui parte la sua odissea, l’inseguimento di una donna della quale si è ossessivamente invaghito e il suo finale insediamento a ruolo guida tra altre gomme animate, pronte in un sollevamento generale a marciare verso Hollywood nelle ultime inquadrature del film.

Detta così potrebbe sembrare che Quentin Dupieux – che dirige, scrive, fotografa e monta – abbia voluto realizzato un omaggio ai film di serie B (o anche Z), filone pulp che continua a ricevere azioni di riscoperta e rivalutazione, ma in realtà la strada non è affatto quella. Partendo dalla dichiarazione di voler fare un’opera senza senso Dupieux intreccia alla vicenda di Robert quella del coro di spettatori, che diventano nel loro strambo e stimolante inserimento diegetico il perno della nostra attenzione, calamitata da un meccanismo a doppia lama. Se infatti il palesamento degli osservatori – e da lì dell’artificio creativo della realtà finzionale – suggerisce una serie di ragionamenti mentali sui quali torneremo, dall’altra parte l’attenzione viene quasi del tutto distolta dalle vicende di Robert, che nel suo svelarsi poco più di un MacGuffin avvicina pericolosamente il film al polo dell’onanismo intellettuale. Privo di vera azione dinamica o progressione narrativa il film si allontana dai territori del genere per avventurarsi in messe in scena più intellettualmente ricercate ma in questo apparente, perché in realtà mai avvenuto, cambio di direzione il film porta con sé la sua carica di nonsense rischiando così di rivelarsi, a conti fatti, un ibrido abbastanza inutile, un mero divertissement.

Verrebbe da dire che pur girato con perizia e ironia Rubber non riesce quindi a liberarsi del suo carattere gratuito (e di una leggera noia di fondo che salta fuori in diverse scene dedicate a Robert), ma c’è una duplice e aporetica verità ad impedirci di farlo; in primis il film non ha nulla di cui liberarsi dato che nasce con dichiarazioni d’intento molto precise, e secondo diversi elementi sparsi nell’opera stimolano chiaramente una riflessione che senza senso non è (per quanto non si faccino carico di portarla a livelli maggiormente elaborati). Nel dire ciò ci riferiamo a due scene in particolare. La prima è quella in cui lo sceriffo di partenza, coinvolto nella storia di Robert pur sapendo che si tratta di un film, scopre che tutti gli spettatori lasciati nel deserto sono morti e da lì cerca di svelare il carattere finzionale di tutta la messa in scena ai suoi colleghi; si fa anche sparare per dimostrare che senza sguardo esterno non c’è più nulla di reale, ma sarà costretto a riprendere la sua funzione attoriale nel momento in cui verrà a sapere che uno spettatore è sopravvissuto. E’ l’esistenza di uno sguardo altro a creare la necessità del reale, e senza osservazione esterna non ha più senso fingere, per quanto in un regime totalmente fittizio realtà ed invenzione finiscano per combaciare. Da questo punto di vista Rubber è un po’ come il gatto di Schrödinger, costretto a rimanere nel limbo tra la vita e la morte fino a che qualcuno non verrà a diagnosticarne il fato. A rimarcare questa funzione costruttiva, realizzativa, dello sguardo abbiamo poi la seconda scena, nella quale Robert si guarda per la prima volta in uno specchio e attraverso l’osservazione di sé prende coscienza del proprio io e della propria esistenza. L’occhio crea tanto la realtà quanto la finzione, e senza di esso entrambe collassano.

Al fianco di questa dimensione rappresentativa – che contiene tra l’altro la chiara, e per certi versi contraddittoria per il film stesso, affermazione che senza spettatori non esiste cinema, senza fruitore non esiste artificio – Rubber impone anche un’ulteriore osservazione, data dalla sua chiara appartenenza al filone del post-umano. Un film del genere infatti, con protagonista una ruota assassina, non può che essere frutto di quel rinegozionamento del (cinematografico e non) rapporto uomo-macchina che da alcuni anni vede la componente umana del duo in netto svantaggio, assediata com’è da un’alterità artificiale o materiale che brama sempre più una fusione sinaptica con l’umano o una sua totale sostituzione. Quello che si staglia all’orizzonte è, almeno in parte, un cinema di oggetti oltre che di macchine, del quale Rubber è volente e nolente un’inquietante anticipazione rappresentativa, specie se consideriamo le immagini finali, quel gruppo di ruote animate pronte all’assalto di Hollywood.

Autore: Matteo Berardini
Pubblicato il 18/02/2015

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