We Are What We Are

Jim Mickle firma il remake del messicano Somos lo que hay, donandone una rilettura intelligente e mai banale. Due film a confronto.

La cinematografia odierna di genere, in special modo quella statunitense, ormai da tempo supplisce alla povertà di idee rimettendo mano a film più o meno noti e dando vita ai remakes, che nella maggioranza dei casi sono operazioni esclusivamente commerciali nonchè di qualità bassa. Jim Mickle, qui al suo terzo lungometraggio dopo l’esordio con Mulberry Street (2006) e il pregevolissimo vampirico Stake Land (2010), riesce a utilizzare il materiale di partenza come base per una rilettura personale del plot, dando vita a un film sostanzialmente – e volutamente – diverso dall’originale. Mickle era inizialmente contrario, a causa della sua antipatia verso i remakes americani di film stranieri; dopo aver parlato con Jorge Michel Grau, regista della pellicola originaria, Somos lo que hay (2010), in compagnia del sodale di sempre Nick Damici (anche co-autore dello script), decide di mettere mano al progetto rendendolo personale. L’ottimo remake, che vede una co-produzione franco-statunitense, ha contribuito a gettare un po’ di luce sull’opera genitrice, di nazionalità messicana e presentata (così come accadrà al rifacimento) al Festival di Cannes nell’ambito della Quinzaine Des Réalisateurs; Somos lo que hay, divenuto un cult per estimatori, si discosta da molti dei canoni di genere horror, soffermandosi su dinamiche differenti e con un tocco autoriale che lo allontana non poco dalla cinematografia orrorifica messicana del passato, composta per lo più da low-budget per palati non troppo fini. Nell’opera di Grau il plot ruota attorno a una famiglia che subisce la perdita del padre a inizio film: i tre figli Alfredo, Juliàn e Sabina, e la madre, figura autoritaria e spesso violenta, si ritrovano a fronteggiare il problema della sopravvivenza. Ciò che li distingue dagli altri è che i loro pasti non comportano esborso di denaro bensì la perdita di vite umane: il nucleo è infatti dedito all’antropofagia, e impegnato nella preparazione di un rituale che viene percepito come necessario alla loro sopravvivenza.

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Mickle, in primis, rovescia il genere sessuale dei componenti della famiglia: i due film iniziano in modo simile, con la morte del genitore per avvelenamento, ma in questo caso è la madre ad andarsene. Restano il padre, Frank Parker (ottimo Bill Sage), e i tre figli: Iris (Ambyr Childers), Rose (una strepitosa Julia Garner) e il piccolo Rory (Jack Gore). Il matriarcato della pellicola messicana, dominato da una madre che sfiora la follia e da una sorella priva di ogni scrupolo o senso di colpa, qui si trasforma solo apparentemente in un predominio dell’elemento maschile: il padre impone la propria autorità ma le figure centrali della narrazione sono le due giovanissime figlie, con la maggiore, Iris, ad assumere il medesimo ruolo di responsabilità famigliare che in Grau viene assegnato ad Alfredo, personaggio complesso e contraddittorio. Tale responsabilità è legata a doppio filo al procacciamento del cibo e al rituale che nel film americano diviene il “Day of the Lamb”, ossia il giorno dell’agnello sacrificale. La prima, fondamentale differenza tra le due pellicole si ritrova nella motivazione dell’istinto cannibalico: in Somos lo que hay non vi sono spiegazioni o tracce di retaggi antichi e, in primis, vi è l’assenza di qualsivoglia elemento religioso. La madre imputa la morte del marito alla sua dipendenza dalle prostitute, scatenando in lei una furia cieca non appena i due figli le portano, come vittima per il rito, proprio una meretrice. In We are what we are, per contro, il diario scritto da colei che per prima, in famiglia, praticò il cannibalismo – non a caso una giovane donna - è simbolo di una tradizione che è d’obbligo tramandare; la sopravvivenza dei Parker, a detta del padre, è legata al consumo di altri umani, in quanto la stirpe è colpita da un morbo che costringe all’antropofagia. Il Dottor Barrow (un come sempre grande Michael Parks) cerca di far luce sulle numerose sparizioni che hanno colpito la zona, tra cui quella della sua stessa figlia: il ritrovamento di ossa umane lo porterà sulle tracce dei Parker, complice l’autopsia eseguita sulla madre, che rivela la presenza di una malattia, la sindrome di Kuru, che è conseguenza del cannibalismo. Dunque, non solo una spiegazione parziale ma, soprattutto, la totale assenza di giustificazione degli atti cannibalici nonché il disvelamento della menzogna che Frank propina alle figlie: la malattia deriva dal cannibalismo, dunque non ne è la causa. La componente sacrale/religiosa, come già accennato, è pressocchè assente nel film messicano: solo il rituale può far immaginare una matrice che si può definire pagana ma non vi sono simbologie, non vi è nulla fuorchè le candele accese nello scantinato e un telone di cellophane dietro al quale viene consumato il macabro compito. Soltanto in una sequenza, una delle più belle dell’intero film, viene nominato il Divino: Alfredo è in metropolitana e una donna canta per i passeggeri, per ringraziarli di averle permesso, negli anni, di far studiare il figlio; nomina Dio nel consegnare dei bigliettini con un messaggio, che per Alfredo è molto semplice, “tu sei vivo”. La struggente Atardecer Huasteco, solo per voce e senza musica, sottolinea un passaggio importante del plot, il “coming of age” del ragazzo il quale, dopo l’esitazione iniziale, torna nel locale gay in cui si trovava per rimorchiare un giovane e portarlo dalla famiglia, che rifiuterà di mangiarlo in quanto omosessuale. Il bigliettino ricevuto in metro è l’input che spinge Alfredo a tornare al locale, dunque ad accingersi a compiere un sacrificio come se obbedisse a una qualche volontà divina.

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In Mickle, la tematica religiosa ricopre un ruolo decisamente più consistente: già nel concetto di “day of the lamb” si palesa il richiamo al sacrificio di stampo cristiano; Frank è uomo credente, che davanti alle resistenze delle figlie dice loro di accettare ciò che sono poiché quella è la volontà di Dio. Un Dio che, alla resa dei conti, è stato poco clemente anche col paese in cui abitano, colpito da un nubifragio che causerà il ritrovamento delle ossa, segnando quindi il destino dei Parker. In entrambi i film entra in gioco la componente sociologica, nella povertà delle due famiglie e nel loro essere tribù a se stanti, assumendo un’impronta politica nell’opera di Grau: la corruzione del sistema messicano, la morte del capofamiglia in un centro commerciale tra l’indifferenza di tutti, la sostanziale inutilità delle forze di polizia e l’indifferenza del medico legale che, al ritrovamento di un dito umano nello stomaco del defunto, commenta con un laconico “qui lo fanno molte più persone di quanto ci si immagini”.

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Un altro elemento chiave di questi due cannibalici sui generis si ritrova nell’analisi delle dinamiche all’interno delle due famiglie: sia in Grau che in Mickle si sente l’odore di relazioni che sfiorano l’incestuoso, nel legame ambiguo tra Alfredo e Sabina, caratteristica che viene ulteriormente rafforzata in We are what we are col rapporto strettissimo che lega Iris e Rose. Rose, la più giovane delle due sorelle, non nasconde la propria gelosia, la paura che Iris possa lasciare la famiglia e la minaccia è rappresentata, naturalmente, da un uomo, il giovane poliziotto Anders (Wyatt Russell): dunque, un componente estraneo alla famiglia/tribù che rischia di comprometterne gli equilibri. Nella versione americana è presente un più attento lavoro sui personaggi e sulle loro psicologie, mentre nel film originario i componenti della famiglia sono disegnati maggiormente a tutto tondo, con caratterizzazioni meno sfumate: la madre è folle e capace di ferocia, Sabina è fredda e quasi del tutto priva di empatia verso il prossimo, Juliàn è l’impulsivo/aggressivo e Alfredo tiene in sé ciò che i suoi famigliari non hanno, ossia una dose di senso di colpa e inadeguatezza. I Parker, e le due sorelle in primis, sono rappresentati con maggior cura, al monolitico padre si contrappongono le due giovani, entrambe a tratti riluttanti a “essere ciò che sono”, combattute tra il senso di appartenenza e un lecito desiderio di normalità.

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Per quel che concerne la messa in scena, Somos lo que hay mostra, di tanto in tanto, qualche sequenza cruenta, pur non indugiando sulla componente gore; We are what we are è quasi del tutto privo di sequenze forti nello snodarsi del plot, per poi culminare in un finale feroce e smaccatamente simbolico. I due film si concludono in modo simile, aperto, per quanto la chiusa scelta da Grau sia maggiormente disperata e nichilista rispetto a quella di Mickle.

Jim Mickle riesce dunque a confezionare un remake che vive di vita propria, prendendo la pellicola genitrice come fonte di ispirazione ma muovendosi su binari diversi, rendendo We are what we are un rifacimento più unico che raro nel suo essere forse anche migliore dell’originale, che resta in ogni caso meritevole di riscoperta. Due film che partono dal medesimo assunto per imboccare sentieri differenti: il regista statunitense filtra il materiale attraverso il proprio personale sguardo, con un lavoro di interpretazione del testo filmico che è il grande assente nelle miriadi di inutili rifacimenti che invadono le sale cinematografiche.

Autore: Chiara Pani
Pubblicato il 22/03/2015

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