Aurora

Se si dovesse individuare il paese europeo che nell’ultimo decennio ha più sorpreso dal punto di vista cinematografico la scelta ricadrebbe facilmente sulla Romania: dal 2005, anno del trionfo di La morte del Signor Lazarescu di Cristi Puiu all’Un Certain Regard a Cannes in poi, un numero elevatissimo di nuovi cineasti rumeni si è imposto nei maggiori palcoscenici internazionali portando una ventata d’aria fresca nell’asfittico mondo del cinema. Le ragioni di tale successo vanno ascritte alla capacità di questi registi di raccontare le contraddizioni del proprio paese riuscendo a parlare a tutti attraverso un linguaggio scarno e semplice ma di forte impatto sullo spettatore. Ma anche dalla curiosità con la quale hanno filmato le piccole storie di vita quotidiana al centro delle loro pellicole, svincolandosi dal dato materiale e arrivando a lambire l’assurdo e il surreale.

In questo senso i film di Cristi Puiu sono esemplari: egli infatti pur legato ad un linguaggio che potremmo definire realistico ha la straordinaria capacità di mostrare sotto una prospettiva differente storie anche banali. L’odissea ospedaliera del signor Lazarescu, che per una notte intera passa da un ospedale all’altro senza ottenere cure, si trasforma, con il passare del tempo, in un incubo kafkiano grottesco e angosciante. E solo grazie all’utilizzo intelligente dei piani sequenza e dei dialoghi. Anche Mungiu ha questa capacità: prendiamo 4 mesi, 3 Settimane e 2 giorni (Palma d’oro al Festival di Cannes 2007). Anche lì come nel caso di Puiu, l’aderenza quasi maniacale e documentaristica della macchina da presa sui personaggi porta il film su binari differenti, trasformando i forsennati tentativi di abortire di una ragazza in una sorta di thriller carico di suspense. In sostanza più che le tematiche è stato e continua ad essere lo sguardo a fare la differenza. Basta guardare Hooked di Sitaru per averne conferma: i rapporti di forza all’interno di una coppia in gita al lago vengono messi in scena attraverso il solo utilizzo di soggettive, in un mirabile (e mai sterile) esercizio di stile che riesce davvero ad essere originale senza intaccare l’urgenza del racconto.

È per questo che abbiamo deciso di dedicare all’interno di Retrovisioni una corposa retrospettiva sul nuovo cinema rumeno dove analizzeremo alcuni tra i più significativi film di questo movimento artistico. La prima tappa di questo viaggio, che vi accompagnerà nelle prossime settimane, è l’ultima opera del sopracitato Puiu, Aurora. Presentato due anni fa nella sezione Un Certain Regard a Cannes, Aurora racconta la storia di un uomo qualunque (interpretato dallo stesso regista) che uccide senza apparente motivo quattro persone. La narrazione si concentra lungo le tre ore di durata esclusivamente sul personaggio principale il quale ci viene mostrato nelle azioni quotidiane (lavoro, pasti, tempo libero e altro ancora) e nella pianificazione degli omicidi, il tutto con un distacco da entomologo che ci impedisce di poterci appassionare alle sue sorti. La macchina da presa, quasi sempre fissa, registra eventi banali, relegando fuori campo i momenti più importanti e decisivi del racconto, ovvero le uccisioni, senza mai intervenire e lasciando alle (spoglie) immagini il compito di traghettarci nel viaggio alienante e solitario di un uomo come tanti.

Rispetto a La morte del Signor Lazarescu, Puiu radicalizza ulteriormente il proprio stile, sfrondando il film di qualsivoglia orpello registico per lavorare ancora più apertamente sul concetto di durata e di rappresentazione del reale. Per farlo elimina personaggi e momenti grotteschi, riduce al minimo gli eventi e i movimenti di macchina e assegna a se stesso l’ingrato compito di interpretare l’antipatico protagonista, il quale sembra vivere in uno stato catatonico che lo tiene lontano e distante dalla vita.

Nella prima sequenza lo vediamo stare fermo nel letto, dopo aver consumato un amplesso, senza tradire alcuna emozione. Aspetta che la donna esca dalla stanza per alzarsi e accendersi una sigaretta, che poi fuma davanti alla finestra guardando verso fuori. Sebbene la figlia di lei si svegli e faccia i capricci, lui non interviene, rimane in disparte, come se la cosa non gli appartenesse, non gli importasse minimamente. Tutta la porzione di esistenza che lo vede coinvolto nel film seguirà esattamente questo canovaccio: egli più che interprete rimarrà uno spettatore, un osservatore esterno. Non a caso è l’azione che gli vediamo fare più spesso, ovvero quella di spiare altre persone, che siano familiari o sconosciuti. Questa attrazione voyeuristica coinvolge poi anche gli spettatori, i quali assistono al dispiegarsi della narrazione come se stessero sbirciando dal buco della serratura. L’inquadratura più ricorrente vede infatti la macchina da presa ferma, impassibile fuori dalle soglie. Gli scavalcamenti di campo si contano sulle punta delle dita, come se il regista volesse rendere partecipe il pubblico di questa tensione impudente e maniacale dello sguardo. Ma soprattutto per far sì che il movimento fosse tutto interno all’immagine e coinvolgesse solo il personaggio, che quasi sempre appare e scompare dai margini del quadro.

Tutto il film potremmo vederlo come un lungo percorso di smarrimento e scomparsa progressiva del corpo, a poco a poco sempre meno presente dentro l’immagine, fagocitato dagli ambienti scarni e realistici. È il fuori campo il vero protagonista della storia: è la vicenda stessa, nel modo attraverso la quale viene narrata a rappresentare una sorta di fuori campo del cinema. Se è vero (ma noi avremmo qualche dubbio) che “il cinema è la vita senza le parti noiose”, possiamo dire che Aurora al contrario non fa altro che mettere in scena gli scarti, i momenti più banali dell’esistenza di un uomo, rinunciando totalmente alla narrazione. I piani fissi che mettono in abisso il personaggio rendono plasticamente questa volontà di rinunciare al cinema così come canonicamente viene concepito, facendo sì che sia sempre il fuori campo – quello che nell’immagine non c’è e non si vede – ad avere il ruolo di primo piano. Solo nel finale l’uomo sembra riappropriarsi del proprio posto sulla scena e dunque della propria immagine (quando decide di consegnarsi volontariamente alla polizia in una sequenza che potrebbe molto vagamente ricordare quella di Bianca di Nanni Moretti) ma è solo un passaggio momentaneo: l’ammirevole scelta morale che sembra riscattarlo lo condanna contemporaneamente ad un ultimo e definitivo fuori campo: quello della prigione e quindi della fine del film.

Autore: Giulio Casadei
Pubblicato il 18/02/2015

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