Rogue One: A Star Wars Story

Tra Kurosawa e Aldrich, quello di Gareth Edward è il miglior omaggio possibile al capostipite del '77, epopea fatalista in equilibrio tra nostalgia e rivisitazione bellica.

Delle tante saghe che regolano ormai la produzione hollywoodiana, Star Wars è da sempre quella più vicina ai codici del mito e del racconto classico, il cinema blockbuster più consapevole dello statuto eroico, e quindi eterno, delle proprie immagini. Del resto Una nuova speranza nasce da un preciso imprimatur di George Lucas, la volontà di unire la passione cinefila (da Ford a Kurosawa) con la rielaborazione dei temi fondanti il canone narrativo occidentale.

Già Il risveglio della Forza, che con la sua meccanica progettualità ha ben poco a che vedere con il sogno di Lucas, era riuscito in qualche modo a preservare l’unicità di questo peso specifico; il film di Abrams, tolta l’ironia posticcia e il ricorso ruffiano e vuoto alla nostalgia, riusciva comunque ad offrire una rappresentazione non banale del ruolo che la fede ha nella resurrezione del mito, anzitutto cinematografico. Dalla stessa necessità di rifondazione iconica nasce anche Rogue One: A Star Wars Story, ma al contrario del precedente quello di Gareth Edwards è un film di grande potenza e umanità, un ritorno alle atmosfere e ai codici del passato che non pretende di scambiare la fedeltà alla tradizione con la fotocopia di puro calcolo.

Grazie alla maggior libertà garantita dallo statuto di spin-off, Edwards si appropria del volto più umano della saga e tradisce in piena fedeltà il mondo di Star Wars, contaminandone l’identità con la logica del più puro dei war movie. Quella tentata da Rogue One è infatti un’impresa non da poco, una rivisitazione che apre ai nuovi codici espressivi del cinema bellico ma sfrutta l’inedita personalizzazione per riconnettersi in piena fedeltà al mito originario.

Con un perfetto bilanciamento di stile, Edwards si pone in equilibrio tra presente e passato e fa di quest’episodio – significativamente il primo senza jedi e protagonisti storici – il miglior omaggio possibile al capostipite del ’77, presente, prima che negli snodi narrativi, nella filigrana di ogni immagine. Dalle astronavi storiche alle armi dei soldati, dalle armature ai pannelli di controllo, Rogue One esercita un’operazione di vintage al confine col feticismo, ogni elemento di scena rimanda all’immagine plastica, ludica, visibilmente artificiale e materica, tipica de Una nuova speranza. Lo sguardo verso il passato si spinge a tal punto da resuscitare senza molte remore il personaggio di Peter Cushing, ricreato in digitale e ampiamente impiegato, mentre i riferimento bellici nulla hanno a che fare con il Golfo o le altre guerre contemporanee perché guardano costantemente al Vietnam, il cui conflitto è evidentemente il riferimento degli ultimi 45 formidabili minuti, un’escalation guerresca ambientata tra le spiagge e le palme di una foresta tropicale, con elmetti verdi che cadono larghi sul capo di giovani dallo sguardo spaventato, e un nemico invisibile nascosto tra gli alberi che chiama al sacrificio.

Il risultato di tutto questo è un cinema fuori dal tempo che apre con il mito originario un dialogo costante ma privo di servilismo, sorretto dallo sguardo di un regista in grado di plasmare dall’interno le regole del blockbuster senza rinunciare a nulla del suo cinema. Dentro Rogue One ritroviamo molto della mano di Edwards, dalla poetica raffinatezza delle immagini alla sfacciata attenzione per gli outsiders del racconto, per una volta non mostruosi. E’ anzi sullo statuto eroico di questa sporca dozzina spaziale che il film regala le maggiori sorprese di racconto.

Rogue One è un film di personaggi conflittuali e imperfetti, la storia di un sacrificio in cui non esistono scelte facili e il passato di ogni eroe è un marchio di violenza che impone una redenzione. Che siano antieroi in cerca di una causa o puri credenti della Forza, i personaggi collaterali di Edwards si muovono tra Kurosawa e Aldrich, sbagliano, cadono e perdono, ma continuano a credere. Del resto ribellarsi è un atto di fede, un accostamento gnostico il cui contraltare è un fatalismo cupo ma mai disperato; per questo le tante morti che costellano il film sono sempre riconciliate, pacificate in un modo o nell’altro con le necessità di quel personaggio.

Da questo punto di vista l’escalation retorica della parte finale ha in sé il senso e l’apice del film; la squadra suicida di Edwards, per definizione sacrificabile in quanto composta da personaggi privi di un futuro commerciale, si carica sulle spalle il ruolo del passaggio di testimone, esemplificato nella splendida immagine dei piani della Morte Nera che passano di mano in mano come una staffetta fino al ricongiungersi con la Storia. Rogue One è la maratona di un cinema che passa attraverso le fila della ribellione e del sacrificio per aprire le porte alla “nuova speranza”. Perché gli eroi nascono e muoiono, ma il mito trova sempre il modo di sopravvivere.

Autore: Matteo Berardini
Pubblicato il 16/12/2016

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