“Questo non è un film” – Intervista a Cosimo Terlizzi

Il tuo ultimo film L’uomo doppio è stato da poco presentato al Festival di Torino; che accoglienza ha ricevuto?

La presenza di Riccardo Scamarcio e Valeria Golino in veste di produttori ha sicuramente trainato giornalisti e curiosi. Ammetto che ho ereditato in quest’occasione una piccola notorietà. L’accoglienza è stata vivace, molti erano interessati a capire come mai due attori famosi avessero deciso di produrre questo genere di film che sembra essere in antitesi con l’industria del cinema. La verità è che Riccardo e Valeria amano l’arte cinematografica e che oggi più che mai si cerca un’uscita possibile dal manierismo.

L’uomo doppio è stato prodotto dalla Buena Onda di Riccardo Scamarcio, Valeria Golino e Viola Prestieri, una casa di produzione attenta al cinema d’autore e alle realtà emergenti. Come è stato il tuo rapporto con la produzione?

Il rapporto con loro è stato intenso, soprattutto con Riccardo. I primi dieci minuti di montaggio sono serviti a convincere Buena Onda a tuffarsi in quest’avventura. Un film senza sceneggiatura perché si è composto giorno per giorno, tirando fuori dal mio archivio sequenze registrate nel tempo che ho ricomposto in modo calibrato. La produzione ha seguito la creazione dell’opera con molto interesse e partecipazione ad ogni piccolo avanzamento. Lo sguardo esterno è stato fondamentale. Il prodotto finale è anche il risultato di un periodico confronto avuto con amici cinefili e critici. Ma le fasi produttive sono anche quelle con le altre presenze nel film stesso. Ad esempio per rendere il montaggio organico ho utilizzato le musiche dei Melampus le cui atmosfere hanno favorito il giusto sentimento.

L’uomo doppio è una sorta di diario intimo multimediale, un po’ come il tuo precedente Folder. Possiamo pensare a questi due lavori come a due capitoli di una stessa ricerca? Qual è il rapporto che li lega?

In Folder vi è l’elaborazione di un lutto le cui circostanze hanno dato luogo ad una riflessione sull’identità in una dimensione in cui lo spostamento da un luogo all’altro diviene anche ricerca di se stessi e del proprio luogo d’appartenenza. Il moto continuo rappresentato dal viaggio era anche speculare a quello interiore: il corpo procede verso una direzione, ma la mente segue lo stesso tragitto? Da qui la riflessione emersa in L’uomo doppio<.

Già dal titolo il tuo ultimo film suggerisce la volontà di indagare una dimensione dell’io che è doppia, scissa, divisa in due. E’ una riflessione dolce amara che ci porta a mettere a fuoco, tra le altre cose, l’eterno dualismo ragione-istinto che in questo caso agisce soprattutto all’interno della vita di coppia. Possiamo dire che la volontà di mostrare certi aspetti della propria intimità qui si fa ancora più estrema e urgente che in Folder?

Si, certo. Qui la questione diventa più sottile. Non sono gli altri ad essere il nostro oggetto d’indagine ma noi stessi, con tutti i rischi che ciò comporta. Sappiamo che il nostro mondo interiore è molto complesso, l’idea di dualità è una sintesi strategica per iniziare un processo di conoscenza di sé che porterà all’individuazione di più aspetti, più gradini di noi. Le sorprese sono sconcertanti. Ti accorgi che l’istinto è molto più forte di quanto s’immagina. L’animale che è in noi scalpita. La posta in gioco è la nostra coerenza, le nostre scelte d’amore, il nostro progetto di vita. Questo non è solo un film ma una vera e propria ricerca espressiva del mondo interiore.

Quale ruolo riveste la voce fuori campo utilizzata in maniera massiccia all’interno del film? Sembra che a essa sia affidato il compito di riflettere, anche filosoficamente, sul caos della quotidianità, di ordinare analizzare il materiale vivo e pulsante delle immagini.

Il flusso di un pensiero che si costruisce quotidianamente, prendendo spunto dalle scoperte e dalle deduzioni del momento. Questa scrittura diventa l’Io Narrante, una voce che qui è aldilà di tutto, e l’aldilà del film è la sala di regia, l’aldiquà del flusso, il luogo del creato. Quindi la voce stacca, ma è la mia voce, l’altro visto da sé. Il riverbero del proprio riflesso assume nel film vari aspetti.

Un aspetto interessante e originale del tuo lavoro è senz’altro il processo creativo: si parte da un materiale piuttosto eterogeneo già girato, accumulato nel tempo, che viene poi riordinato in una fase successiva. Puoi dirci qualcosa di più da questo punto di vista?

Immagino che tutti i pezzi registrati nella nostra vita possano essere ricomposti come un puzzle, a volte incastrati a forza altre volte combacianti perfettamente. Questo è il diario. Scritto anno dopo anno, rappresenta un ritratto del proprio tempo e dei propri moti interiori. Può essere interessante tutto ciò? Me lo sono chiesto spesso soprattutto in questi anni in cui ognuno di noi può essere oggetto d’interesse pubblico nel web. Proprio per questa ragione sono andato a mettere il dito nella piaga, se di piaga si tratta. In fondo è la ricerca artistica contemporanea ad avere il compito di verifica estetica della realtà.

Rispetto il metodo di montaggio ho portato avanti gli spunti di Folder, cercando di proseguire l’idea di film ipertestuale che rispecchiasse anche la nostra vita e il supporto del diario composto di vari materiali. In L’uomo doppio ho sperimentato altre soluzioni mi sono spinto verso una costruzione più fluida.

Cosa puoi dirci rispetto ai tuoi progetti futuri? Pensi di approfondire l’ambito del documentario oppure di esplorare la dimensione della fiction?

Spero di proseguire la ricerca in un ambito dove non sarò più io a mettermi come cavia, sogno di uscirne. Non so ancora dove questo capitolo mi porterà e con quali mezzi espressivi. Intanto sono in fase di scrittura.

Autore: Arianna Pagliara
Pubblicato il 03/11/2014

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