Cane mangia cane

di Paul Schrader

Schrader adatta il noir di Bunker con un'opera indisciplinata e fulminante, il racconto della dissoluzione di un terzetto di criminali senza speranza.

Cane-mangia-cane recensione film Cage Schrader

Tratta da un romanzo di Edward Bunker, Cane mangia cane, l’ultima opera di Paul Schrader, rappresenta perfettamente un’idea di cinema totale: al centro della storia c’è un’idea, forte e pulsante, alla cui espressione vengono declinate tutte le risorse del linguaggio filmico. L’idea al centro di Cane mangia cane è l’isolamento: isolamento da prigione, da mura di cemento armato e barriere psicologiche. Isolamento dalla società, da qualsiasi cedimento a relazioni sentimentali e altre ammissioni di fragilità. Cane mangia cane è una storia marginale di uomini soli, schiacciati dalla colpa e incapaci di liberarsi del loro fardello.

Mad Dog (Wilhem Dafoe), Diesel (Christopher Matthew Cook) e Troy (Nicholas Cage) sono i membri di una sgangherata gang che campa di piccole commissioni e magri bottini, finalmente riuniti dopo un lungo periodo di carcere. Guidati da un improbabile faccendiere con un soprannome da signore del crimine ("il greco", interpretato dallo stesso Schrader), i tre hanno infine l’opportunità di rischiare tutto su un grosso colpo: il rapimento di un bambino.

Fin dall’inizio, è chiaro che questi uomini sono destinati al fallimento: esclusi dal mondo civile e da una vita "normale", i tre criminali possono appigliarsi soltanto a flebili speranze e a un cameratismo senza via d’uscita. Gli effetti dell’isolamento sui tre protagonisti dell’opera sono diversi, ma altrettanto profondi e devastanti: nei loro corpi imperfetti ed ebbri di vita si agita un’ansia di vivere continuamente frustrata, incontrollata. Mad Dog è logorroico, irrimediabilmente stupido, sofferente, soggetto a tremendi raptus di incontrollata follia. Diesel prova, senza successo, a reintegrarsi nella società dopo l’esperienza del carcere, ma anche la sua psiche e sull’orlo della rottura. Troy è il più sfuggente dei tre: la sua è la figura del criminale decadente, desideroso di riscatto e legato ad ambigui codici d’onore criminali. Sua è l’idea di fare un giuramento da samurai fuori tempo massimo: o vinciamo tutti, o cadiamo tutti insieme. Anche Troy, nonostante il suo ruolo di leader, è un debole: per tenere in piedi la propria identità si appiglia ai luoghi e alle immagini del cinema noir e criminale, ad Humphrey Bogart e all’epica degli antieroi.

Uomini vuoti, personalità sull’orlo dell’abisso. D’altronde, che cosa rimane dell’uomo dopo il Day Zero di The Canyons, dove Schrader ha messo in scena la scissione dell’identità in mille schegge di luce e mille dispositivi di ripresa e riproduzione? Bagnati di una luce irreale e surreale, Diesel, Mad Dog e Troy vagano tra stanze d’hotel e vicoli malfamati in un labirinto di pulsioni e sensi di colpa, cercando risposte a domande che non sono in grado di formulare, incapaci di una distanza critica e di uno sguardo sulla propria condizione umana. Cane mangia cane è, a tutti gli effetti, un lungo epilogo: un "racconto della fine" i cui primi atti sono ormai persi nell’irrilevanza, dimenticati dai loro stessi protagonisti.
Mad Dog, in particolare, sembra il guscio vuoto di un uomo che non esiste più: nel capitolo introduttivo (di gran lunga il più disturbante) del racconto, assistiamo ad una sorta di origin story scritta con la cocaina: il "peccato originale" di un uomo incapace di controllare le proprie debolezze e profondamente autodistruttivo, illuminato da una impossibile luce rosata e da una voce registrata che ci parla di cupcakes.
Come Mad Dog, anche i suoi compari sembrano non avere un passato e non esistere prima della prigionia e del crimine. Battezzati nell’isolamento, infestano i nonluoghi dell’immensa periferia sociale americana e sono incapaci di trovare la quadra della loro stessa storia (come il montaggio singhiozzante e irrequieto ci ricorda ad ogni curva narrativa). Sono mere ombre, relitti di opere scorsesiane e tarantiniane mai filmate.

Cane mangia cane è, in fondo, un dolente e irriverente post mortem. Ci parla di uomini senza futuro e di un tipo di cinema che, sembra dire Schrader, è anch’esso fuori tempo massimo e orgogliosamente sorpassato. Schrader gioca con il linguaggio e con gli stilemi del cinema di genere, ma le sue ossessioni non si sono mosse di un millimetro: innocenza perduta e redenzione impossibile, colpa e sentimento della fine sono temi a lui cari che resistono alle mutazioni di genere filmico e ci investono ancora oggi con la loro perturbante vitalità.

Autore: Alessandro Gaudiano
Pubblicato il 05/08/2017
USA 2016
Regia: Paul Schrader
Durata: 98 minuti

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