Napoli velata

In difesa del film di Ozpetek: perché la sua ghost story è indifferente alla dittatura del verosimile.

Premessa pleonastica: per capire alcune opere, a volte, è necessario avvicinarsi ad esse attraverso un atto di rimozione dei pregiudizi, ovvero dei giudizi già esistenti e sedimentati – a torto o ragione – su un autore e il suo fare cinema. È senz’altro il caso di Napoli velata di Ferzan Ozpetek, regista puntualmente stroncato dalla critica e promosso dal pubblico. Il turco naturalizzato italiano ci ha messo del suo: dal Duemila in poi, infatti, di film in film ha evidenziato una tenace volontà di accreditarsi come “autore”, richiamando esplicitamente alcuni nomi-totem come riferimenti, non solo Almodovar (a cui è tradizionalmente associato), ma - per esempio - anche Fellini e Visconti in Magnifica presenza. Il cineasta forse non è esattamente “simpatico”: per il suo fare il verso di alcuni grandi, ovviamente, ma anche perché le ambizioni sono spesso supportate da una scrittura fallimentare, che tende a rifugiarsi sia nel “film famigliare” del cinema italiano mainstream (la lite a tavola, un marchio di fabbrica), sia nell’azzardo onirico iscritto nella memoria cinematografica più felliniana. Da qui l’accusa ricorrente che si muove ad Ozpetek: non riflettere sugli stilemi ma semplicemente metterli in scena, riproporli in calco, ripassarli su schermo in racconti e personaggi che a questo si limitano, per il resto girando a vuoto. Rifare uno stile col buco intorno.

Ecco perché occorre sgombrare la mente davanti a Napoli velata. Perché qui qualcosa è cambiato. Come insinua il titolo, è una ghost story napoletana: Adriana (Giovanna Mezzogiorno) è una donna di mezza età che trascorre una notte con un uomo più giovane, Andrea (Alessandro Borghi), per poi darsi appuntamento al giorno successivo. Nel luogo prescelto, dentro il Museo Archeologico Nazionale alla sezione del Gabinetto segreto (quella che ospita i reperti a sfondo erotico), egli però non si presenta: Adriana pensa a una “normale” dinamica salvo poi, poco dopo, ritrovarsi un cadavere all’obitorio in cui lavora come medico legale. È il corpo di Andrea senza occhi. Ma non è tutto: dopo il trauma dell’omicidio, Adriana inizia a vedere per strada un uomo identico ad Andrea...

Ozpetek si rivolge ai padri del thriller: naturalmente Alfred Hitchcock, le cui vertigini sono riprodotte già nella prima inquadratura della scala a spirale, ma anche il suo ri-scrittore De Palma, col Museo Archeologico partenopeo che qui sostituisce il Metropolitan di Vestito per uccidere, capolavoro sempre seminale per la riflessione sul meccanismo. C’è poi l’ombra del Siodmak de Lo specchio scuro, l’archetipo dello sdoppiamento di Olivia de Havilland che qui “diventa” Borghi. Inoltre la sceneggiatura, scritta al solito con Valia Santella e soprattutto Gianni Romoli, restituisce quel Romoli che ha lavorato con Dario Argento e Michele Soavi (in Trauma, La setta, Dellamorte Dellamore). E proprio l’Argento settantesco sembra un altro riferimento chiave: come Profondo rosso si radicava nei luoghi di Torino - per esempio la famosa Fontana del Po dove si muove Marc/David Hemmings - così Napoli velata si iscrive intimamente nel capoluogo campano.

Se Napoli è protagonista, il termine velata è suo aggettivo imprescindibile: non la vediamo come la conosciamo, ma dietro un velo che nasconde la realtà. Siamo dunque lontani dallo stereotipo, non c’è camorra né povertà, bensì una rivisitazione in chiave misterica in cui Ozpetek non prende la città in sé, ma la trascina sul terreno del genere: dal citato Museo archeologico al lungomare Caracciolo, dalla Farmacia degli Incurabili al Cristo Velato, ogni spazio viene risemantizzato in senso esoterico piegando allo scopo gli elementi della tradizione, dalla numerologia della smorfia alle credenze medianiche che portano a percepire “presenze”, fino alla figura di Peppe Barra che attinge direttamente al folclore e diventa vittima. Ed ecco il punto: l’archetipo gonfiato, l’esagerazione, il grottesco abita da sempre il cinema di Ozpetek, e qui non si fa eccezione, ma questa è una storia di fantasmi. L’autore prende i suoi toni prediletti e li trascina sul piano spettrale, rendendoli legittimi in virtù della sospensione di incredulità che accordiamo al fantastico: allora l’amplesso furioso all’inizio, il perenne stupore di Adriana/Mezzogiorno, lo sdoppiamento gemellare di Andrea/Luca/Borghi si dispongono solo su campo immaginifico, vengono incorniciati nella scelta del surreale e diventano quindi plausibili. Perfino i segni distintivi ozpetekiani acquistano nuovo significato, come il ruolo irrinunciabile del cibo: i piatti preparati dalla protagonista stavolta sono consumati solo in teoria e si prestano esattamente al discorso fantasmatico.

Napoli velata è un film che spacca il realismo: ammicco sfacciato al sovrannaturale, gioco di regia espressionista che conferma l’abilità del turco dietro la macchina da presa (quella c’è sempre stata: lo ribadisce, ad esempio, la ripresa di raccordo tra presente e passato in forma di piano sequenza sui mobili antichi della stanza). Agire sul piano dell’immaginazione, nella maggioranza del cinema italiano ancorato al reale, può spiazzare: ci ha provato Roberta Torre nel sottovalutato Mare nero, con Lo Cascio tormentato dalle visioni, ci prova Ozpetek nell’ennesima e reiterata gemmazione di fantasmi e doppi, possibilità interpretative, mondi lynchiani dietro a un velo. E così Adriana viene attratta da Luca, gemello di Andrea: esattamente come avviene ne L’amant double di François Ozon, di cui si seguono le tracce, velo su velo, uniti dalla stessa convinzione che “la realtà non sia quella che si vede”. E vedere è il dubbio del film: decidere con quali occhi farlo è lasciato a noi che guardiamo. Non a caso Andrea viene ucciso per enucleazione oculare, non a caso l’occhio greco è il simbolo che appare e/o scompare secondo una doppia ipotesi narrativa. Non a caso, infine, il lento movimento di macchina che chiude il racconto fa dubitare, mette ancora in discussione: al contrario del cinema assertivo, per una volta, con sana indifferenza verso l’obbligo della verosimiglianza a tutti i costi.

Autore: Emanuele Di Nicola
Pubblicato il 10/01/2018

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