Mòzes, il pesce e la colomba

Un romanzo di formazione dagli sdrammatizzanti toni onirici che racconta il critico passaggio all’età adulta

Mòzes, il pesce e la colomba di Virág Zomborácz è un bildungsroman sui generis. Una metafora dai toni surreali. Il racconto allucinato di un processo di emancipazione e della tormentata fase liminare dell’esistenza, divisa tra desideri e paure connesse alla crescita: l’aspirazione all’indipendenza, alla ricerca di un posto, un’identità, in un mondo spietato e insensibile.

Mòzes è un timido ragazzo figlio di un autoritario pastore protestante. Dopo un periodo di ricovero in un centro psichiatrico, ritorna dalla famiglia in cui la presenza del pater familias grava su tutti: la madre, la zia e la sorella minore. I due caratteri agli antipodi rendono il rapporto padre/figlio conflittuale. Ma dopo la morte inaspettata del genitore, Mòzes arriverà a confrontarsi con il fantasma di suo padre, fino a trascinarlo in una serie di situazioni surreali animate da personaggi bizzarri.

Quello della regista ungherese è un film fatto di equilibri, dove tutti gli elementi che gravitano attorno al sensibile Mòzes assumono un valore simbolico, mentre fungono al contempo da distorte ocularizzazioni del novello Wilhelm Meister, in continuo contrasto con la realtà che lo circonda. Proprio come l’eroe del romanzo di Goethe, le visionarie percezioni di Mòzes colgono l’essenza della realtà e della finzione al fine di unirle e farle convivere, come un’ideale fusione tra la dimensione psichica e quella corporea, il dentro e il fuori, il conscio e l’inconscio, l’aldilà e l’aldiquà, concretizzate nel facondo spazio del palcoscenico.

Mòzes è incastrato tra i due status: tra l’allegorica figura del pesce, come ingombrante corpo muto, e quello della colomba, come evanescente ed eterea presenza. Corpo e anima spesso in conflitto ma mai inconciliabili se poste su una giudiziosa bilancia dell’esistenza. Emblematica dualità in cui si manifesta anche il padre defunto: presenza silente ma ingombrante, visibile solo al giovane orfano che lotta con la vita.

Zomborácz racconta con sagace black humor il difficile processo di elaborazione del lutto scegliendo una chiave narrativa surrealista. Una modalità questa che sembra accomunare tutto un filone di cineasti ungheresi. Si ricordi ad esempio For Some Inexplicable Reason (2014) di Gábor Reisz: romanzo di formazione dagli sdrammatizzanti toni onirici che racconta il critico passaggio all’età adulta di Aron, partendo da una destabilizzante delusione sentimentale. Come Mòzes, anche il protagonista di questa storia si ritrova metaforicamente, e non, alla deriva: il biglietto di sola andata per Lisbona di Aron come la deriva della barchetta di Mòzes dopo aver liberato il pesce (incarnante la presenza grama del padre).

Ma allo stesso tempo tornano alla memoria anche certe produzioni nostrane, come La kryptonite nella borsa (2011) di Ivan Cotroneo e Short Skin – I dolori del giovane Edo (2014) di Duccio Chiarini. A ribadire che un genere inflazionato e desueto come quello del bildungsroman ancora sopravvive se rinnovato da nuova veste e da soluzioni espressive originali e scevre di quei toni tragici di forgia goethiana, pur non disdegnando una genuina parodia dell’immaginario stereotipico: Mòzes come l’Amleto di Shakespeare coglie il messaggio del padre defunto e si fa carico della mise en scène teatrale della Natività.

Dentro Mòzes, il pesce e la colomba il teatro assume infatti una funzione non marginale. Perché dietro la maschera da commedia il film si fa carico di un valore metacinematografico. Tutto è rappresentazione: la proiezione mentale del fantasma paterno; i disegni che il fantasma osserva sulla parete e grazie ai quali riacquista la memoria e la percezione di sé (come in una sorta di processo di reificazione); o la fotografia scattata da Mòzes al padre con in mano il grosso pesce dopo la battuta di pesca. Scena emblematica, in cui il mirino del flash si punta dritto sulla fronte come quello di un fucile di precisione e scatta la foto che lo ritrarrà per l’ultima volta in vita. Un’eloquente operazione di eternizzazione che passa attraverso il mezzo fotografico, in cui lo shoot (fotografare) coincide con lo shoot (sparare), facendo di quell’immagine impronta indelebile, impressa nella memoria, nell’esistenza.

«Per un attimo ero contento della sua morte» ammette Mòzes dopo aver appreso della dipartita del padre. La morte improvvisa diventa così scotto da pagare alimentato dal senso di colpa, ma soprattutto, pretesto per far scattare quella scintilla drammaturgica che porterà il giovane antieroe a confrontarsi con se stesso per far fronte ai suoi fantasmi. Reali o immaginari che siano, poco conta.

Autore: Andrea Schiavone
Pubblicato il 16/02/2016

Ultimi della categoria