Barbara

di Mathieu Amalric

Oltre la superficie del biopic sulla cantautrice francese Barbara, Amalric espone il proprio sguardo e dà corpo a una realtà pluridiscorsiva, fatta di reenactment, appropriazioni di corpi e, soprattutto, di ricordi.

Barbara - Recensione film Mathieu Amalric

Nel vasto panorama del biopic legato ai grandi personaggi della musica, assistiamo troppo spesso alla pratica avulsa e logora che tenta di stare in piedi sull’accostamento di spettacolarizzazione, di drammatizzazione, e il tentativo di costruzione di calchi, di riproduzione fedele dei tratti dei personaggi che animano quelle biografie. Si tratta ovviamente di una riduzione: il gesto della semplice rappresentazione è una delle configurazioni del cinema (per usare la terminologia di Bertetto), ma alle volte il biopic può proprio servirsi della rimessa in scena per giocare in profondità, scardinare la forma, sostanziare i livelli di realtà. Ed è proprio il caso della Barbara di Mathieu Amalric, modellato sì sulla figura della popolare cantautrice francese omonima, ma che guarda anche e soprattutto altrove, verso altri piani. Del resto, Barbara non è propriamente un film biografico su Barbara (pseudonimo di Monique Andrée Serf), ma un film sulla costruzione di un film biografico su Barbara. C’è una stella del cinema che vestirà i panni della cantante, Brigitte (Jeanne Balibar), e c’è un regista che tenterà di dirigerla, Yves, lo stesso Amalric. Il gesto del reenactment come centro del film porta sempre con sé l’esposizione di una realtà pluridiscorsiva, dove il dato effettuale, ciò che è accaduto, il preordinato, non può ripetersi mai come fedele a sé stesso. C’è un contingente nel presente, nell’atto della riproposizione di un passato, con cui bisogna scendere a patti. Ed è affascinante Barbara proprio per l’evidenza di questo slittamento di livelli.

Non solo Brigitte prende in mano il copione e impara le battute, ma finisce per modificarle, trasforma il tempo dei verbi: lei è Barbara, Barbara dunque vive al presente; non “amava”, bensì “ama”. Non analizza Barbara, la espone – ecco, di nuovo, l’espressione forse più giusta – proiettandone filmati di repertorio che la riproducono su tutte le pareti dell’appartamento, così da carpirne la prossemica, i gesti in forma macroscopica. E in questa appropriazione del corpo (la cui quasi perfetta sovrapposizione di lineamenti a tratti rende irriconoscibile la finzione dai filmati di repertorio), la contingenza della realtà su cui Brigitte tenta il passaggio a Barbara la mette in scacco. Brigitte diventa figura avvolta dell’aura misticheggiante della cantante, pronunciandosi in fulgide e isolate espressioni di genio, ma pure e soprattutto delle sue idiosincrasie. Lo slittamento tra le soglie del ruolo e di sé la conduce a un’erosione interna, fino a interrogare il regista Yves, quasi stigmatizzandolo, sulla natura dell’opera: “E’ un film su Barbara? O su di te?”. Per Yves non fa differenza alcuna, ma fa invece tutta la differenza del mondo per la ricezione delle immagini di Amalric, che torna sempre, da auteur, cinéphile, al potere auratico del dispositivo di dire più della realtà, più di una storia, più di un’immagine.

barbara - mathieu amalric

Già la scelta della cantautrice dice della centralità dell’autoriflessione; i suoi album più importanti prendono il nome, del resto, di Barbara chante Barbara (1964) e Barbara (1996), l’ultimo prima della scomparsa. Amalric-Yves assume come centro di gravità Balibar-Brigitte-Barbara perché della cantante ama il ricordo. Uno in particolare: “una volta mi ha baciato”. Yves lo dice in un sussurro, con timore. Piange di nascosto, vive di quella memoria di gioventù, ascolta incantato Jacques Tournier a proposito del lungo incontro-intervista avuto da questi con l'artista . Al di sopra di Brigitte, c’è quindi la rimessa in scena dettata dal ricordo di Yves, demiurgo, “clown nero” (così si autobattezza l’autore in un post-it); un corpo esterno che tenta di farsi propaggine e infine organo interno di quella storia. Ma il ricordo, un evento, sono irriproducibili, per fortuna di Amalric, che può allora esplorare le conseguenze di questo gesto fallace. “Una volta mi ha baciato”, continua a dire. È l’esposizione del suo sguardo, delle sue remote fantasie, la sua storia, il suo film.

Autore: Andrea Giangaspero
Pubblicato il 25/07/2022
Francia 2017
Durata: 98 minuti

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