Marguerite e Julien - La leggenda degli amanti impossibili

Il nuovo film di Valérie Donzelli è un’opera fuori dal tempo che elabora una riflessione non ovvia sul cinema e le sue narrazioni.

Marguerite e Julien attraversano i secoli. Amanti proibiti e incestuosi, solcano la morale di ogni epoca, si fondono in un amour fou che elide, scavalca, rinnega qualsiasi tempo della storia. Occhi seicenteschi puntati su cieli di elicotteri, alla scoperta di un punto di convergenza, di un impossibile trait d’union che assorba romanticismo e derive pop, amor cortese ed estetica del videoclip. Quello che rimane è l’immagine nuda, capace di essere bloccata, velocizzata o rallentata, disposta a esibire la sua stessa natura. Cinque secoli, del resto, s’incontrano in uno sguardo. Se le strade ospitano automobili e cavalli, possiamo scorgere una radiolina all’interno di una stanza cinquecentesca, mentre la musica classica si fonde con sonorità rockeggianti. Julien e Marguerite veicolano tutti gli archetipi della letteratura cavalleresca innestando i codici basilari della fiaba: la passione struggente e proibita, il miraggio di una fuga impossibile, l’amore disperato e irresistibile che annienta qualsiasi norma sociale.

Valérie Donzelli smonta il film in costume con la passione ludica dell’anacronismo. Scompare il tempo, rimane la storia, ridotta alla sua natura archetipale, messa in scena come una recita sopraffina, un ennesimo adattamento che per rinnovarsi ha bisogno di una vera e propria messa in abisso della sua struttura.

Marguerite et Julien - La leggenda degli amanti impossibili non è un film su un rapporto incestuoso punito con la ghigliottina, ma sulla messa in scena di quel rapporto. E’ profondamente truffautiano non tanto perché riprende una sceneggiatura pensata decenni fa per il regista, ma per come riflette sui problemi dell’adattamento e sul cinema come dispositivo di scrittura delle immagini. I personaggi, di conseguenza, non sono Marguerite e Julien, ma Anaïs Demoustier e Jérémie Elkaïm, modelli/attori che devono interpretare i due fratelli (in fondo il modello bressoniano di Lancillotto e Ginevra non è così distante).

Ci sembra questo il naturale approdo del cinema privato e coloratissimo di Valérie Donzelli: i suoi film precedenti erano vibrazioni elettriche, fiabe pop in cui imprimere il proprio sguardo. Con Marguerite e Julien, la Donzelli continua a stratificare, espandere, reinventare il suo cinema. Guarda indietro nel tempo già sapendo che ogni passato è pura ricostruzione scenografica: il film in costume diviene l’unica fantascienza possibile. Julien e Marguerite sono quindi due viaggiatori nel tempo, due fratelli dei giorni nostri catapultati in un passato che sembra costruito in un teatro di posa. Tutto è finto, tutto è artefatto, tutto è così esplicitamente, dichiaratamente cinema: dalla performance distaccata degli attori alle scenografie così accurate, dal racconto delle bambine collegiali al tableau vivant che manda in cortocircuito la narrazione.

Se il cinema della Donzelli aveva trovato il punto di massima detonazione con La guerra è dichiarata, in Marguerite et Julien avviene qualcosa di molto particolare. Tutta l’energia, la vitalità furente e musicale, tutto il dinamismo di quello sguardo femminile implode, si allontana, lascia uno spazio vuoto tra la camera e i personaggi. Il film in costume che racconta l’archetipo per eccellenza, quello dell’incesto, si sdoppia, si ritorce, si ritratta per trasformarsi in qualcos’altro. Che è, prima di tutto, una riflessione non ovvia sulla narrazione, sui codici dello sguardo, sul cinema stesso.

Così come gli attori sono semplici modelli, versioni moltiplicabili di un mito, la morte non avviene mai realmente. Perfino le sequenze più tragiche – come quella verso il finale, in cui i due fratelli vengono finalmente catturati – sono immediatamente “sospese”: l’intuizione che uccide il climax, quella dei fermo-immagine, spezza gli equilibri del film, distoglie, infastidisce, e proprio per questo rilancia. Non c’è più spazio per un racconto classico, non c’è più spazio per il costume, tutto è ormai una grande messa in scena. Non stupisce dunque che in sala il pubblico rida o sbeffeggi il film: perché Marguerite et Julien è esattamente questo, un’opera su una realtà di sola lettura. E in tutto questo, ancora una volta, Marguerite et Julien è un film da difendere a spada tratta, perché mette il linguaggio delle immagini al centro di tutto.

Autore: Samuele Sestieri
Pubblicato il 09/06/2016

Ultimi della categoria