Maleficent

Iperattiva su ogni fronte, la Disney degli anni zero è certamente il colosso dell’intrattenimento più coinvolto e impegnato nei processi di riscrittura e adattamento che caratterizzano l’industria culturale contemporanea. Non paga di traslare la storicità della continuity Marvel nella sfera cinematografica, o di aver resuscitato e rinvigorito il percorso della Forza, la Disney continua ad impegnarsi anche sul terzo fronte della rielaborazione casalinga, ovvero l’adattamento in live-action dei suoi classici d’animazione più noti. Tuttavia, nonostante l’ingente impegno profuso, questo filone continua ad essere il meno interessante tra quelli che caratterizzano il blockbuster hollywoodiano di oggi, incapace di portare a segno film efficaci e soddisfacenti da più punti di vista. A rispettare la tradizione arriva infine questo Maleficent, sospinto dall’iconica bellezza di Angelina Jolie ma a conti fatti assolutamente incapace di rovesciare tali premesse.

Lo spunto da cui nasce Maleficent è intrigante e ben pensato. Piuttosto che limitarsi a riadattare dal vivo lo storico cartone del 1959, l’idea della Disney è stata quella di ribaltare la prospettiva de La bella addormentata nel bosco, andando a raccontare l’altra storia. Protagonista indiscussa così non è la principessa Aurora bensì Malefica, la crudele strega che nel film originale agisce senza delle chiare motivazioni e che qui, a fronte di un approfondimento narrativo e psicologico, perde tutta la sua intrinseca cattiveria. Grazie soprattutto alla splendida interpretazione della Jolie, vera ragion d’essere del film, questa Malefica diventa un personaggio complesso e sfaccettato, che deve la crudeltà delle sue azioni a torti e ferite d’amore sepolte nel passato. Maleficent diventa così un film su un cattivo che a conti fatti non vuole essere tale, una favola non tanto sull’amore quanto sul perdono e la possibilità di redenzione, e sul potere che essa ha di sconfiggere le pulsioni più abiette ed egoistiche dell’uomo.

Il problema di Maleficent però è che i suoi pregi si fermano qui, all’affascinante spessore della sua protagonista, circondata da personaggi fortemente bidimensionali, compresi il re Stefano (uno Sharlto Copley irriconoscibile da quanto è anonimo) e la piccola Aurora, su cui pesa inoltre una recitazione a stento passabile. Basta uno sguardo infuriato della Jolie, una posa flessuosa della sua Malefica a far impallidire qualunque altro personaggio o attore. Un vuoto quello attorno a lei che l’esordiente regista Robert Stromberg non riesce minimamente a colmare, impegnato com’è a far convivere registri malamente contrapposti tra loro. Maleficent infatti è un film scisso e diviso nelle sue parti, in cui la rappresentazione fantasy post Signore degli anelli (battaglie, abbigliamenti realistici, atmosfere vagamente dark) è affiancata da una sottotraccia leggiadra e più esplicitamente disneyana, un incontro-scontro posticcio e artificioso che impedisce al film di raggiungere una sua identità. A funzionare sono soprattutto le scene più leggere tra Malefica e Aurora, le più vicine come spirito ad un adattamento Disney e prive di quell’iniezione di digitale testosteronico e pretenziosamente dark che aleggia su tutto il resto.

Vincitore di ben due premi Oscar come migliore scenografo per Avatar e Alice in Wonderland , Stromberg si rivela purtroppo un regista privo di sguardo e incapace di dare un’identità al film, che vive così soltanto di momenti. Di certo la sceneggiatura di Linda Woolverton (per quanto autrice tra gli altri di La bella e la bestia e Il re leone) non lo aiuta nel compito, ma considerata anche la scarsa incisività degli apparati digitali tutto in Maleficent comunica un malfunzionamento generale, per un film che sicuramente intratterrà il suo pubblico più giovane ma che di certo non è all’altezza della sua protagonista e dell’attrice che la interpreta.

Autore: Matteo Berardini
Pubblicato il 09/08/2014

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