Tanto tempo fa, oggi. Toccare (il mito) per credere – Star Wars Il risveglio della forza

Dopo averne preso le distanze in fase di recensione, torniamo a parlare di Star Wars con una seconda e diversa ipotesi di lettura.

Preceduta dalla campagna promozionale più dirompente degli ultimi anni (e forse della storia del cinema), arriva nelle sale di tutto il mondo il settimo capitolo della saga più amata di sempre; un capitolo che pianta un tassello cardinale, una prima pietra che non si limita a una singola direzionalità. Bensì un oggetto quantomeno bifronte, capace di guardare al contempo avanti e dietro di sé.

Come spesso accade per eventi mediali che travalicano la nozione stessa di film, il gioco a rimpiattino tra aspettative, desideri e previsioni viene immediatamente disinnescato – alle volte in maniera deludente – dall’autoevidente, quanto organica e polimorfa, natura dell’opera. È davvero difficile infatti cimentarsi nell’analisi filmica senza rintracciare prima i fili che collegano un tutto più ampio, di cui la componente estetico-artistica rappresenta solo una piccola parte.

Può sembrare lapalissiano, ma è impossibile arrivare a Star Wars: Il risveglio della forza senza sottolineare anzitutto la sua natura di blockbuster per la cui realizzazione la Disney ha speso 4 miliardi di dollari in diritti, un’enormità che giustifica qualsiasi tipo di corsa al profitto. Non è un caso allora se a ogni sequenza del film si ha la sensazione di star assistendo al risultato di un calcolo millimetrico, alla quasi infallibile progettazione algoritmica che soggiace alla gigantesca macchina dei sogni. Alla base di una natura nettamente meno identitaria rispetto ai sei film precedenti c’è la necessità di intercettare la fetta di pubblico più ampia possibile, esaltando (anche quando non servirebbe) quelle caratteristiche che negli ultimi anni stanno definendo questo tipo di cinema. Da qui deriva naturalmente l’ironia spesso eccessiva di cui il film è permeato, quella sorta di programmatica attenzione a non lasciar mai passare più di cinque minuti senza una situazione comica, che sia la battuta più o meno sottile, il buffo intermezzo da rom-com o l’autoparodia interna (non sempre riuscita, a dire il vero). Si tratta sicuramente del versante di maggiore fragilità del film, con il quale però non si più che scendere a patti e accettarlo come elemento trasversale di un determinato tipo di cinema in questo periodo storico, esattamente come fu per l’abuso di CGI nella prequel trilogy.

La rinascita di Star Wars non passa più dalle mani di George Lucas, bensì da un soggetto molto più complesso e plurale, le cui istanze e rivendicazioni emergono chiaramente nel film. Pur non potendo non partire dalle fondamenta poste dalla mente che ha partorito l’intero universo e dalla Lucasfilm, la presenza proprietaria della Disney riporta al centro dell’operazione l’importanza dell’artiglieria pesante, abbinata alla qualità di un comparto creativo (Pixar docet) che ha davvero pochi avversari in quanto alla capacità di rielaborare immaginari, come dimostra la creazione del nuovo droide BB-8 – declinazione lucasiana di Wall-E – sicuramente tra le cose più riuscite del film. Allo stesso modo non va dimenticato l’impatto che ha all’interno della conglomerata mediale la presenza della Marvel, specie perché ci si muove in territori cinematografici contigui, che lo si voglia ammettere o meno. Il parallelo più prossimo possibile è senza dubbio quello con Guardiani della galassia (che già a sua volta fu apparentato ad Episodio IV): sia per un’umanità di ritorno tutt’altro che supereroistica, sia per un’affinità visiva innegabile, a cominciare dalle location.

Di fronte a opere del genere, in cui la nozione classica di autore viene letteralmente polverizzata (non che questa figura non sia importante o che non possa fare danni, basti pensare alla recente produzione di Zack Snyder), la sfera della progettazione prende il timone inducendo a fare i conti sia dal punto di vista economico che da quello interpretativo, intercettando il bilancio tra il calcolo meticoloso di ogni parte della realizzazione e i risultati realmente ottenuti. Sotto quest’aspetto il titolo è emblematico: il Risveglio è l’obiettivo egemone, ovvero il tentativo di riportare alla luce una passione per troppo tempo perturbata da polemiche e lotte fratricide fino a snaturarsi e che ora ha bisogno di una nuova umanità, di un risveglio, di una “nuova speranza” (e qui si sprecano tutte le sterili accuse di remake e/o addirittura plagio), di piantare piedi, occhi e cuore nel passato, nella leggenda, per poter spiccare il volo verso nuove avventure.

I nomi che guidano quest’operazione non solo fanno impressione, ma testimoniano di un progetto di rinascita sentimentale tutt’altro che improvvisato: Kathleen Kennedy, direttore generale della Lucasfilm e produttrice di tanti successi di Steven Spielberg; Lawrence Kasdan autore di diverse perle degli anni Ottanta e sceneggiatore del miglior episodio della saga, L’impero colpisce ancora; J.J. Abrams, scelto come regista e prima ancora come collante principale dell’intera operazione. Se c’è bisogno di ritornare in una terra quasi dimenticata, da un immaginario lasciato da troppo tempo alle spalle (“Chube, siamo a casa”), di riformulare il presente a partire dalla nostalgia verso un’innocenza perduta, specie se all’interno di una macchina produttiva così imponente, nessuno è più indicato di J.J. Abrams, cresciuto col cinema di Spielberg e con la fantascienza anni Ottanta (omaggiata dal suo Super 8).

Insomma, quasi uno di noi.

A conti fatti, cosa vuol dire riportare in vita il franchise di Star Wars oggi se non risvegliare l’innocenza dello sguardo, il desidero d’amore verso una mitologia che molti hanno sentito violentata, torturata, virtualizzata o irregimentata. Ora vogliamo toccarla e loro vogliono farcela toccare, perché per risvegliarci c’è bisogno di credere davvero, di saggiare la materialità della meraviglia, c’è bisogno di poter toccare il cinema, poterne ascoltare i rumori e sentirne le emozioni. Come? Passando dall’iperdigitalizzazione della scorsa trilogia a una sorta di analogico di lusso, ma soprattutto dalla razionalità politica delle ultime creature di Lucas all’umanesimo originario che ha dato vita all’intero universo, e segnatamente partendo da un sincretismo universale capace di mettere insieme cose che insieme in genere non stanno.

Le prime inquadrature ci mostrano infatti i nuovi Stormtroopers, con la loro rivitalizzata natura meccanica (e qui c’è un grandissimo lavoro sul sound design, responsabile almeno al cinquanta percento di questa nuova esperienza), con movimenti robotici e una tridimensionalità che sta al limite tra il giocattolo in scala 1:1 e il sogno fantascientifico che si fa realtà tangibile. Se Star Wars prima che una serie di film è un universo, assumono allora importanza non secondaria tutte le parti che lo compongono: ambientazioni, oggetti inimmaginabili, cibi interstellari dalla fulminea lievitazione, alieni di ogni sorta e astronavi. L’obiettivo è centrato alla perfezione, subito. L’arrivo a Jakku (una sorta di nuovo Tatooine) significa anche ri-assaporare la polvere desertica che ha fatto di Guerre stellari (anche) un film di frontiera, dove la negoziazione tra umano e non-umano dà vita a un patto di larghissima tolleranza, dove androidi eseguono numeri di screwball comedy e una guerriera senza famiglia si mantiene raccattando macerie di un mondo che non c’è più.

Non solo la carne e il sangue quindi, ma la materia intesa in senso più ampio, la materialità. Quella voglia tutta infantile di credere davvero in qualcosa solo se è possibile toccarla, quell’umanissima incredulità di fronte a storie ormai non più autentiche, perché in un mondo dove il falso regna sovrano l’unica verità possibile è quella tangibile, quella che rompe ogni muro di diffidenza. Su queste basi comincia e prosegue l’avventura di Rey e Finn, parte per il tutto di quella bramosia di tornare a credere che ogni cosa, dai Jedi alle spade laser, dalla Morte Nera al Millennium Falcon sia accaduta ed esistita davvero. A confermarlo infatti non c’è il solito tramite, il medium impersonale, ma Han Solo in carne ed ossa, il cui corpo è talmente reale da aver come tutti subito lo scorrere del tempo, tanto vero da poter far tornare con un semplice “It’s all true” la meraviglia tanto negli occhi degli spettatori quanto in quelli dei due protagonisti. Soprattutto nella prima parte del film si respira a pieni polmoni quell’aria di verità tanto desiderata, si risveglia quella autenticità che trova l’apice emotivo nel decollo della “vecchia ferraglia”, quell’astronave leggendaria con la sua scia, il suo rombo (puntellato dalla sempreverde musica di John Williams) e il suo sgattaiolare tra ruderi fanta-medievali che mette sullo stesso piano Rey, Finn e tutti noi spettatori all’insegna del sogno ad occhi aperti.

Riportare in vita la mitologia di Star Wars non era certamente un obiettivo semplice, ma rappresentava la conditio sine qua non per poter avere un briciolo di fiducia da parte di un pubblico (e una critica) così legati al proprio amore d’infanzia. Aprire le porte al futuro però era una missione ben più ambiziosa, nonché un terreno lastricato di insidie, sul quale ogni buccia di banana avrebbe potuto avere l’effetto di una mina anti-uomo.

Il cuore narrativo su cui si sono cimentati Abrams e Kasdan riguarda i tre nuovi personaggi principali: Kylo Ren, Finn e Rey. Per quanto riguarda il primo è evidente la scelta degli autori che, sapendo di non poter partorire un nuovo Darth Vader hanno giocato sul conflitto interiore, sul complesso di inferiorità, sul fantasma del più riuscito villain di sempre che aleggia sulla memoria di quello nuovo, un po’ come su quella di tutti noi. Darth Vader per Kylo Ren è come la Rebecca di Hitchcock, ovvero quel detonatore di insicurezze che fa del nuovo cattivo un personaggio estremamente tormentato (grazie anche al talento interpretativo di Adam Driver) e in prospettiva di grande complessità, anche a costo di rinunciare ad essere uno sterminatore senza pietà. In questo percorso di riconquista della propria umanità si inserisce anche Finn, Stormtrooper redento, classico individuo ordinario che trovatosi in circostanze straordinarie comincia a guardarsi dentro e che nella presa di coscienza della sua vera natura subisce due veri e propri battesimi: prima con i segni del sangue sul casco nel bellissimo incipit, poi con il nome da uomo assegnatogli dal suo primo vero amico, il pilota Poe Dameron.

Il segreto della ripartenza di questo franchise però sta nella protagonista, ovvero l’eroina Rey, figura femminile che ribalta l’intera concezione di genere dell’immaginario lucasiano (fatto sì di donne forti ma mai davvero di combattenti), pur inserendosi con grande coerenza nell’assiologia filosofica della saga. Rey porta con sé tutta la fisicità e il carisma delle guerriere contemporanee (si veda l’ultimo Mad Max), alle quali abbina un rispetto per la tradizionale fusione di spinte occidentali e orientali che ha caratterizzato da sempre gli eroi dei film precedenti, con tanto di arti marziali, abbigliamento e acconciature che la apparentano a tanti personaggi femminile dei wuxia. È lei al centro di quello che a tutti gli effetti è un triangolo amoroso dalle grandi potenzialità (Star Wars, nel suo essere un cocktail di generi, ha sempre guardato anche alla soap opera), nel quale per ora spicca la sequenza del confronto tra forze di volontà con Kylo Ren, intensa e neanche troppo velata metafora sessuale.

Star Wars è sempre stato un oggetto problematico dal punto di vista critico ed è davvero difficile (e forse poco sensato) valutare il film come un oggetto isolato e indipendente, cosa che peraltro non è; non ha alcun senso mettere una cesura tra l’opera e l’esperienza, tentando di fare distinzioni tra un prima, un durante e un dopo riguardo a un universo talmente organico da respingere in partenza questo tipo di distinzioni.

Autore: Attilio Palmieri
Pubblicato il 21/12/2015

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