Lui è tornato
David Wnendt confeziona un convincente adattamento cinematografico del best-seller che immagina il ritorno di Hitler ai giorni nostri.

E se Adolf Hitler, quello vero, ricomparisse, come se nulla fosse, circa settant’anni dopo la sua morte? Se resuscitasse esattamente nel luogo della sua dipartita e riprendesse a camminare per le strade della Germania del nuovo secolo e del nuovo millennio, cosa accadrebbe?
Redivivo, gli occhi più temuti d’Europa di nuovo puntati contro il mondo, Herr Hitler subirebbe anzitutto lo strazio di un cielo libero, senza velivoli infestanti. Le orecchie non avvertirebbero il valzer gioioso dell’artiglieria. Incredulo, si sorprenderebbe dell’esistenza stessa del mondo, sopravvissuto alla sua volontà d’annientamento, della possibilità di una tregua dalla guerra, del cinguettio di un uccellino e delle sue buone condizioni di salute.
Sui resti del suo ultimo quartier generale, il Führerbunker che in tanti hanno cercato di distruggere nel tempo, troverebbe ora un pacifico quartiere residenziale; la sua amata gioventù, lungi dall’essere quella “splendida bestia predatrice” che avrebbe desiderato nella sua nefanda idea di palingenesi, sarebbe molto più innocentemente intenta a trastullarsi con un pallone e lo scambierebbe senza troppi ripensamenti per un barbone malmesso. La porta di Brandeburgo, dove nel 1933 i nazionalsocialisti fecero passare una fiaccolata per celebrare la sua stessa ascesa, sarebbe fisiologicamente piena di turisti che lo scambierebbero, al massimo, per un ottimo imitatore. Risate, selfie, flash, commenti, saluti nazisti. I mimi che detengono il monopolio sul circo delle attrazioni, infastiditi dallo sconfinamento del concorrente, lo caccerebbero via in malo modo mentre Lui, per nulla interessato a dispute gigionesche, cercherebbe con estremo pragmatismo di arrivare alla Cancelleria del Reich.
Nel 2012 Timur Vermes l’ha davvero pensato. E scritto, persino, facendone un best seller da milioni di copie vendute, tradotto in decine di lingue. In Lui è tornato l’autore immagina con geniale coraggio gli sviluppi di una tale assurda, straniante ipotesi, producendo un’originale what if comedy grottesca e intrigante. Qualche anno dopo, David Wnendt, regista dell’omonimo adattamento cinematografico disponibile su Netflix e proiettato per tre giorni anche nelle sale italiane, si spinge persino oltre, innestando all’irriverente – ma in fin dei conti inoffensiva – materia ironico-surreale del libro, un ben più problematizzante impianto mockumentaristico, amputato di netto dal Borat di Sascha Baron Cohen e lasciato (ri)vivere in tutto il suo turgore generativo in un nuovo corpo narrativo.
Notato per caso dal goffo Fabian Sawatzki (Fabian Busch), un reporter smidollato stregato dalla perfetta decalcomania del Führer che vede il suo “talento naturale” come un’occasione per l’agognato riscatto professionale, Hitler – folle calcolatore, lucido manipolatore, carismatico persuasore, esattamente come quello storicamente esistito – si presterà ben volentieri ai piani del giornalista, seguendolo in un tour germanico che lo porterà dalle strade di Berlino fino alla Frisia settentrionale dell’isola di Sylt, dai piccoli e grandi centri della Bavaria fino agli studios televisivi e, infine, al grande schermo.
Ma quella che nel testo di Vermes rimane soltanto finzione narrativa, un mondo diegetico parallelo alla realtà, acquisisce nel film di Wnendt una dimensione reale, fisica. Il suo Hitler – interpretato con terribile fedeltà dal tanto sconosciuto quanto straordinario Oliver Masucci, che si è preparato sugli scritti, sui discorsi e sullo stile del Führer rinchiudendosi per due settimane in albergo con un coach del linguaggio – cammina davvero tra la gente del ceto medio tedesco, inconsapevole comparsa di agghiaccianti candid camera.
Qualcuno lo abbraccia come una popstar, una donna dice esplicitamente di amarlo; un gruppo di italiani alza il braccio destro per salutarlo, mentre una donna nera si allontana terrorizzata. Sono in molti a dimostrare sincero entusiasmo per Hitler-Masucci: simpatizzano con le sue idee, si dichiarano a favore della riapertura dei lager, si abbandonano a filippiche xenofobe, a deliranti esternazioni. Un’audace prova letteraria si trasforma così in studio antropologico-culturale, in esperimento sociale, nella conferma delle nostre peggiori paure: che qualcuno possa ancora prestare seriamente ascolto alle stesse parole che hanno portato l’Europa alla Seconda Guerra Mondiale e all’Olocausto.
Hitler vive e vince due volte. Nel mondo reale le sue idee riscuotono apprezzamento, condivisione, riproposizione da parte della destra radicale. Nell’universo finzionale, convinto che il destino, la Provvidenza (la Vorsehung di schellinghiana memoria) lo abbia riportato sulla Terra per permettergli di continuare la “sua battaglia” (il kampf della celebre autobiografia), da buon artefice del proprio destino, plasma la (ri)salita al potere grazie ad un nuovo – per lui, s’intende – mezzo di propaganda: la televisione.
Il carisma, l’abilità oratoria e performativa, la naturale predisposizione alla leadership gli permettono di guadagnarsi una seconda possibilità di conquistare il mondo. Hitler (ri)diventa “faber fortunae suae” mentre il popolo progressivamente perde punti di quoziente intellettivo, convinto che il suo abbassamento sia dovuto all’arrivo degli immigrati, quando è in realtà sintomo di un burnout inarrestabile, dell’incapacità di sostenere una mole informe ed enorme di informazioni che invece di renderci più edotti, più vicini alla verità, ci sovraccarica, ci riempie di superfluo. Hitler utilizza il vuoto palcoscenico dei talk show e dei programmi demenziali per veicolare le sue idee, sinistramente applicabili ad un presente che non sembra poi così diverso dal passato. E mentre nessuno sembra prenderlo sul serio, mentre cercano continuamente di affibbiargli una parte o un’identità diversa dalla propria, Hitler rompe il giocattolo della rappresentazione, denuda i meccanismi della finzione televisiva (denunciando persino la presenza del gobbo), sfuggendo alla parodia di se stesso.
Non esce mai dal ruolo (“chi altri dovrei essere” ripete più volte) perché non ha alcun bisogno di fingere: gli basta essere se stesso. Nel pastiche plurivoco di Wnendt c’è una feroce critica ai limiti della società liquida del world wide web, di Wikipedia e del sapere condiviso, della comunicazione social in tempo reale, dell’abbattimento delle barriere tra reale e virtuale. Nonostante tanta informazione, non c’è più memoria, identità, intelligenza della realtà.
E allora è paradossalmente proprio Hitler ad impadronirsi di nuovo della storia, del suo potenziale didascalico (l’historia magistra), a far tesoro dei propri errori e, darwinianamente, ad adattarsi rapidamente al nuovo mondo post-nazista. Spetta a lui incarnare l’autorevolezza, la visione, la responsabilità tipiche del leader in un mondo che subisce continui “insulti all’intelligenza”. Il Führer riporta il discorso sulla politica in un mondo che soffre di apatia politica, diviene eroe dell’essenziale in un mondo frivolo, è l’unico a giudicare davvero insopportabile la pantomima della turbopolitica, dell’infotainment, del “divertirsi da morire” (per riprendere un testo illuminante di Neil Postman). In un mondo di dormienti (Eraclito e Parmenide docet) è lui il più vero (cioè vivo, sveglio). Gli unici a riconoscerlo, per ironia paradossale, sono autori alcolizzati, anziane donne affette da demenza, rinnegati sociali. Outsider. Gli oppressi di cui parlava Levi in Sommersi e Salvati, che non a caso metteva in guardia dalla fallacia della memoria umana. Lui è tornato è allora una sottile riflessione sulle possibilità del ritorno del rimosso, del perturbante – l’un-heimlich, cioè che era familiare, che è stato sepolto e riaffiora, un tema caro al Kubrick di Shining, de Il Dottor Stranamore e di Arancia Meccanica, omaggiato musicalmente all’inizio e alla fine del film – in una società costretta a subire la ripetizione dell’inenarrabile. Una società dove l’esperienza sembra svuotata del suo valore epistemologico perché è soltanto un gesto d’automa, dove si vive costantemente nel futuro e il ricordo, la narrazione – atti creativi che rendono attuale il potenziale, espresso l’inespresso – sono cose d’altri tempi, cose da pazzi o emarginati. Dove tra doppi e maschere (metaforiche e di silicone), metalinguaggi, emuli e computer grafica – che non a caso esplodono verso la fine nello studio cinematografico – la verità si sfilaccia sempre più, fino a scomparire dietro l’inganno. Che ne approfitta per tornare di nuovo al potere.