La ragazza nella nebbia

Donato Carrisi trasfigura le sue parole in immagini, inquisendo attraverso il grande schermo la banalità del male (mediatico) che infierisce sul nostro tempo.

La notte in cui tutto cambia per sempre è quella in cui il veicolo dell’agente speciale Vogel (Toni Servillo) viene ritrovato in un fosso alle porte di Avechot, una cittadina sperduta nel cuore di ghiaccio delle Alpi. L’uomo è incolume, ma sotto shock. Inoltre, non sembra rammentare nulla di quanto avvenuto prima dell’incidente. L’unica cosa certa è che sono trascorsi sessantadue giorni dalla scomparsa di Anna Lou Kastner (Ekaterina Buscemi), una sedicenne dai lunghi capelli rossi, apparentemente fagocitata da una caligine impenetrabile, che ha assalito l’adolescente mentre percorreva i trecento metri che separano la sua abitazione dalla chiesa della confraternita locale. Eppure Avechot è l’ultimo luogo al mondo in cui Vogel dovrebbe trovarsi. Un mite psichiatra (Jean Reno) aiuta l’agente a diradare la nebbia che avvolge, nel suo abbacinante candore, la perversa oscurità di quei giorni di indagini. Ma la vera incognita si cela in un altro inquietante particolare: a chi appartiene il sangue che lambisce gli abiti dell’uomo senza memoria?

Oltre a essere un thriller carico di mistero, La ragazza nella nebbia è anche la trasposizione cinematografica del sesto romanzo di Donato Carrisi, alla sua prima esperienza dietro la macchina da presa. Osannato da autori del calibro di Michael Connelly e Ken Follett, il letterato pugliese esordisce sul grande schermo con il suo best seller internazionale dall’impronta più cinematografica, da cui affiora nitidamente l’anima primigenia di una sceneggiatura. Distribuito da Medusa Film, il lungometraggio nasce dalla sinergia produttiva di Colorado Film e Gavila, la casa di produzione fondata dallo stesso Carrisi. Il risultato consiste in una riuscita dissezione anatomica – e transmediale – della crudeltà umana, enunciata tramite una narrazione che si snoda nei tortuosi meandri di un cupo processo di anamnesi. La frammentazione spazio-temporale dell’intreccio asseconda le ambiguità di un punto di vista tripartito: quello dell’accusatore, del presunto mostro e del confessore psicopatologo.

La suggestiva cornice diegetica, fotografata dalle lenti anamorfiche di Federico Masiero, è quella di Avechot, un anonimo e immaginario paese arroccato sulle Alpi del Trentino-Alto Adige, a pochi chilometri dal confine. Un complesso urbano difeso da valli profonde e sinuose, in cui scorrono fiumi ostili. I quartieri della cittadina sono costellati di villette monofamiliari con giardino, identiche tra loro. All’interno, appesi sulle pareti floreali accanto ai televisori a tubo catodico, incombono solenni crocifissi di legno, a ostentazione di una fede arcaica che convive a stretto contatto con la recente prosperità economica di pochi. A propagarsi sotto la superficie artefatta del convenzionalismo sociale, il male che serpeggia nell’ombra della più austera e distorta devozione divina, pronto per essere evocato con l’immolazione di un agnello sacrificale. Un martirio che si tramuta celermente in sadico intrattenimento collettivo, un sortilegio mediatico volto a ridestare le coscienze di milioni di giudici estemporanei dalla letargia del quotidiano, all’insegna della mercificazione del delitto.

I protagonisti di questa crudele danse macabre si muovono in scenografie scarne e tetre, sospese tra passato e presente, dove si respirano sovente le atmosfere di Twin Peaks, Fargo, Seven e Il silenzio degli innocenti, nell’eco di Una pura formalità del nostrano Giuseppe Tornatore. Luciferino il personaggio di Toni Servillo, in un ruolo affine – eppure moralmente antitetico – a quello del tormentato tutore della legge che l’attore ha impersonato nel debutto cinematografico di Andrea Molaioli, La ragazza del lago, ambientato però nella provincia friulana. Avvolto in un capotto scuro di cachemire, l’eccellente Servillo restituisce l’essenza di un consumato cinico per cui l’apparenza è un’armatura, un uomo tenacemente artefice del proprio presente, come i mass media che suggestiona con inesauribile destrezza. A subire il peso dell’adulterazione della realtà, un irsuto e umbratile Alessio Boni, nel ruolo del placido professore di letteratura del liceo locale, reo di corrispondere al profilo stilato del colpevole. Il suo calvario costituisce l’epicentro nevralgico della narrazione, una spirale discendente simile a quella effigiata nel feroce film di Thomas Vinterberg, Il sospetto, nel contesto dell’assedio mediatico visto in un’altra pellicola di Fincher, L’amore bugiardo. Lontano dalla luce dei riflettori e delle telecamere, la verità giace sepolta ai piedi di una croce, tra VHS, audiocassette, diorami e diari segreti, “al di là del bene e del male”.

Laureato in giurisprudenza con una tesi sul Mostro di Foligno, Carrisi possiede una conoscenza approfondita delle dinamiche ermeneutiche e logico-etiche che costituiscono i binari sui quali opera il processo penale. Nella sua incarnazione filmica, strutturalmente in bilico tra il noir italiano anni Sessanta e il thriller statunitense anni Novanta, il regista-scrittore applica i rodati meccanismi della suspense alla denuncia di un morbo che affligge il sistema giuridico contemporaneo: nell’era dei media il decorso giudiziario risulta fatalmente oppresso dalla sua stessa mediatizzazione, specie durante le indagini preliminari. Ma verità giuridica, mediatica e sostanziale non coincidono mai, perché la verità è una costruzione interiore, come sagacemente comprovato da Rashomon. Nel mondo di finzione creato da Carrisi, il manipolatorio agente Vogel – con la complicità della spietata reporter Stella Honer (Galatea Ranzi) – ricorre a ogni espediente per celebrare un mefistofelico rituale che conosce in ogni sua fase: dalla santificazione della vittima fino alla crocifissione dell’indagato (non ancora imputato). Un grottesco spettacolo creato appositamente per sfamare la morbosa curiosità del “pubblico a casa”, oltre a quella dell’umanità rumorosa e oscena dei “turisti del terrore” accorsi in massa ad Avechot, richiamati dai seducenti effluvi di un immenso dolore privato. La desolante istantanea ritrae un Paese radicalmente disumanizzato, in cui più importante di qualsiasi forma di giustizia è l’audience. Un orrore per il quale Omicidio all’italiana di Marcello Macchia, in arte Maccio Capatonda, potrebbe essere considerato una surreale parodia ante litteram.

La brutalità del sopruso fisico è quasi totalmente assente nel film di Carrisi, proprio come nell’opera letteraria di riferimento. Perché la natura della violenza che interessa l’autore è più evanescente e concerne ognuno di noi. È quella che invade le nostre case con il volto sorridente di ragazzine che dalla nebbia non potranno emergere mai più, perché destinate a rimanere eternamente segregate sul fondo di un pozzo o abbandonate nel fango di un campo incolto. Un atto di prevaricazione assoluta a cui contribuiamo ogni giorno, lasciando che inondazioni digitali di cronaca nera sgorghino dai nostri simulacri portatili, per sottrarci al tedio dell’esistenza metropolitana, in un profluvio di asserzioni sterili che diffondono ciclicamente epidemie di costernazione massificata e sospetto. “Il peccato più sciocco del diavolo è la vanità”. Forse. Ma quello più ingenuo è pensare che il diavolo si celi unicamente nelle sembianze dell’altro. Perché quello che Carrisi restituisce al nostro sguardo voyeuristico ha tutte le caratteristiche formali per essere considerato un esorcismo.

Autore: Marco Grasso
Pubblicato il 06/11/2017

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