La foresta dei sogni
Bisogna credere in questo cinema per poterlo amare

Non si può non amare un film che omaggia più volte Un americano a Parigi di Vincente Minnelli, capolavoro assoluto forse oggi dimenticato, o comunque sottovalutato da intere schiere di registi e cinefili che vedono in quell’ingenuità, in quella purezza, il segno di un passato lontano e non più rintracciabile nel cinico e disilluso mondo che viviamo. Tant’è che oggi risulta molto più facile fare un film come quello dei Coen che non credere ancora nel musical…
Non si può non amare La foresta dei sogni di Gus Van Sant, e non certo per nostalgia, ma piuttosto perché quelle citazioni, quegli omaggi disseminati lungo la narrazione in modo esplicito, come le molliche di Pollicino, costituiscono parte integrante del film, rappresentano il suo manifesto sentimentale. Denunciano la volontà di rifarsi ad un immaginario, ad una filosofia di cinema in cui tutto è possibile, come nei musical – genere che più di ogni altro rappresenta l’essenza del cinema come luogo della possibilità - e in cui anche i passaggi a vuoto, le sbavature, le incongruenze partecipano, al pari dei momenti riusciti, al racconto, alla sua umanità. Perché riflettono la fragilità dell’uomo, scandiscono la ricerca di un percorso alternativo, tortuoso, difficile, accidentato in cui è facile smarrirsi e cadere. Bisogna credere in questo cinema per poterlo amare. E’ necessario condividerne il dolore e persino l’illusione di un amore che si trasforma, che rinasce sotto altre forme. La foresta dei sogni è uno dei film più difficili e coraggiosi mai realizzati da Gus Van Sant, perché prova a rilanciare oggi l’idea di un cinema della trasparenza classica e fiabesca, dell’evidenza metaforica, dell’illusione fantastica, ma senza le consolazioni di un tempo. Ciò che è perduto non può tornare com’era prima, e anche il passato, i ricordi, non hanno niente di consolatorio o banalmente romantico. L’unico orizzonte possibile è quello della perdita, ieri come oggi, nella foresta così come nella casa coniugale. Pensiamo ai flashback che scandiscono la narrazione e che dovrebbero “aprire” il film, spiegando le ragioni che portano il protagonista a tentare il suicidio in Giappone, nella foresta di Aokigahara. Ebbene quei flashback dicono sì di un amore perduto, ma lo fanno diluendo la tragedia nella banalità del quotidiano, nel lento dissolversi dei sentimenti. Nell’erosione del tempo. Ecco allora che l’immersione in un luogo altro come quello della foresta, zona liminare tra vita e morte, sembra coincidere con il cinema, con l’ingresso nel regno del possibile e dell’immaginario. Il reale, chiuso in interni soffocanti, ha l’aspetto inerte della noia e del rancore. Solo attraverso il cinema, che racconta l’avventura “impossibile” tra fantasmi e reincarnazioni (esplicitando ciò che in un film come Gerry era celato nel rigore e nelle apparenze del cinema tarriano), si può sopravvivere ad una morte certa e poi convivere con il dolore. Non a caso ciò che salverà il nostro protagonista sarà proprio il ricordo di un film, Un americano a Parigi, e in particolare le scale che portano al paradiso, che nel film di Minnelli avevano una triplice valenza, come scenografia per lo spettacolo di George Guétary, come rifugio di un amore clandestino, a due passi dalla Senna, e poi come luogo dell’incontro finale, in cui ci si ritrovava a metà strada, né su né giù, sospesi in un lungo e appassionato bacio. Quel ricordo si materializza nella foresta ed indica la via, che è poi quella di una riemersione dal purgatorio. Al di là delle scale non vi è però alcun paradiso, neanche dei sentimenti. Il ritorno alla vita sancisce da un lato l’emergere di una consapevolezza nuova e dall’altro l’isolamento in un set circoscritto e addomesticato che sembra una grande camera verde truffauttiana. Si vive nel ricordo e il ricordo continua ad abitare la vita. Ma senza aperture sul futuro, come invece sanciva lo struggente finale di L’amore che resta, con lo sguardo fuori campo di Enoch che riavvolgeva i nastri del film fino a sciogliersi in un dolce sorriso. Anche qui l’amore resta sfidando l’oblio, fino al punto però da condannare l’altro al rapporto esclusivo e reclusivo con il fantasma amoroso.