Julieta
Almodóvar torna al melodramma e alle ossessioni di una vita senza l'estro creativo delle origini, al disperato inseguimento della propria autorialità

É un film sulla colpa, Julieta. Una colpa (vera o presunta) che parte da un vagone del treno, di notte, e viaggia lungo trent’anni di vita, veicolata da sguardi non visti, non capiti, non ricambiati.
Una colpa che riemerge, col suo bagaglio di dolori e frustrazioni, da un incontro inaspettato, e viene svelata, passo dopo passo, flashback dopo flashback, lungo le righe scritte da una madre a una figlia scomparsa, fuggita dal suo abbraccio tredici anni prima.
Da sempre il miglior cinema di Pedro Almodóvar è quello capace di andare a braccetto con le passioni, con quell’irruenza, ora kitsch ora sfacciatamente grottesca, in grado di prendere un intero mondo e abitarlo di emozioni intense, provocatorie, autentiche.
Sorprende e non poco, allora, che proprio a una storia di amore filiale tradito e di abbandono come Julieta manchi proprio quell’empatia così preponderante nell’opera del regista spagnolo.
Dopo le discutibili – a loro modo coraggiose, senz’altro singolari – prove degli ultimi anni, da La pelle che abito a Gli amanti passeggeri, Almodóvar torna alle sue atmosfere e al suo genere prediletto asciugando però la spontaneità debordante della sua poetica e riducendo la propria visione al manierismo puro di uno stile oramai consolidato.
Quello che ne esce è, sì, l’ennesimo melò che si dispiega come un thriller, un cupo noir più che mai intimista e famigliare su amore e morte, con al centro un mondo tutto al femminile, ma anche un compendio di suggestioni riportate all’essenziale e allo stereotipo, alla scarna riproposizione di un immaginario mai tanto indebolito.
Mantenendo – in superficie – stilemi, vezzi e ossessioni propri del suo cinema, Almodóvar fa di Julieta, col suo simbolismo urlato (il mare, le statuette maschili), il suo intreccio ridotto all’osso (almeno per i canoni dell’autore), i suoi sentimenti assoluti e il suo sostenuto tono drammatico, un oggetto che respinge ogni complessità, tanto compatto e strutturalmente impeccabile quanto freddo e poco coinvolgente.
E a poco serve, questa volta, l’insistenza sui temi e le manie di una vita, su quella costruzione geometrica degli interni, quei primi piani, quegli immancabili colori forti e accesi che hanno reso il regista di Donne sull’orlo di una crisi di nervi tra gli autori più amati della sua generazione.
La cronaca drammatizzata della vita di Julieta, da donna a madre, da madre a creatura infelice e abbandonata, ossessionata da un passato che non vuole farle sconti e da un presente incapace di dare senso alla più dolorosa (e ingiustificata?) delle mancanze, ha tutta l’aria di una tragedia abortita, esile, fin troppo essenziale.
Resta la potenza espressiva e l’originalità di alcune sequenze e di alcune trovate, come la mutazione, tanto esteriore quanto interiore, della protagonista dietro allo strofinarsi di un asciugamano, e la forza di due interpreti (la giovane Adriana Ugarte e la matura Emma Suáres) che in quella sequenza convergono, capaci di incarnare al meglio il sentire di due età, di due mondi, di un prima e un dopo inevitabilmente doloroso.
Julieta è allora, più che un’opera fallimentare, forse un Almodóvar minore, pellicola di transizione di un autore ancora lungi dall’esaurire il proprio estro creativo, di smarrire la propria forza sovversiva, di perdere quello sguardo unico che stava dietro a opere come Tutto su mia madre. O, almeno, è quello che ci piace pensare.