Intervista a Irene Dionisio

Da Sponde a Le ultime cose: ritratto di una regista e del suo cinema

Un incontro umanamente fecondo come le storie che Irene Dionisio predilige per il suo cinema. Storie di oggetti, di corpi, di assenze. Storie di transiti tragici e di oggetti ritrovati, storie amare, di fallimenti, di consapevolezze, di ricordi dati in pegno. Il nostro redattore, Domenico Saracino, ha avuto il piacere di intervistare, al termine della proiezione del suo ultimo film Le ultime cose realizzata al Cineporto di Bari nella rassegna "Registi fuori dagli Sche(r)mi" e curata da Luigi Abiusi, con la moderazione di Giona Nazzaro e Anton Giulio Mancino, la giovane regista torinese. Buona lettura.

In Sponde il protagonista tunisino colleziona oggetti appartenuti ai naufraghi del Mediterraneo, portatori del DNA, del respiro e dei sogni di chi li ha posseduti. Sono tracce di esistenze stroncate dai grandi fenomeni macroeconomici. La stessa cosa sembra avvenire, con la crisi economica che sostituisce i fenomeni migratori, in Le ultime cose. Ritieni che Sponde sia stato in qualche modo propedeutico per l’idea alla base del tuo primo film di finzione?

In realtà avevo già trovato l’idea del banco dei pegni nel momento in cui ho deciso di girare Sponde. C’è sicuramente un legame molto forte tra i due film, sia per quanto riguarda le questioni politico-economiche sia per la riflessione sugli oggetti che sfocia poi in un discorso più ampio sulla tracce materiche, veri e propri elementi di testimonianza che resistono a varie forme di violenza.

Che ruolo occupa il cinema, dispositivo dal potere feticistico per eccellenza, in grado di restituirci gli oggetti, soprattutto quelli perduti, nella loro sacralità e dimensione metafisica, in questa operazione di scandagliamento della realtà?

Il cinema è per me una sorta di testimonianza della vita che viviamo. Una testimonianza che in qualche modo è già invecchiata nel momento in cui finisce, figlia com’è di uno sguardo che, una volta partorito il film, cambia e si evolve. La cosa che più mi ha colpito nel momento in cui ho deciso di fare cinema è che potevo fare una riflessione che colpisse sensorialmente e intellettualmente in modi profondi e completi. Il cinema è una protesi proiettata nel futuro: ti dà la possibilità attraverso la telecamera – che altro non è se non lo sguardo – di produrre qualcosa di materico che può circolare e produrre pensiero. È come se regalassi il tuo sguardo, il tuo modo di vedere il mondo a chi vuole usarlo per riflettere o emozionarsi.

Da Sponde a Le Ultime Cose, cioè dal documentario al film di finzione: hai trovato difficoltà in questo passaggio cruciale, ad esempio per quanto riguarda il lavoro con gli attori?

Direi di no. Anzi, ho apprezzato in particolar modo proprio il rapporto con gli attori! La finzione poi ti lascia una libertà in scrittura di cui sentivo l’esigenza e che il documentario ti permette fino ad un certo punto e in maniera completamente diversa. Si potrebbe dire che la finzione mi ha permesso di rendere vivo un pensiero fino in fondo, laddove forse il documentario mi avrebbe costretto ad essere più passiva nei confronti della realtà.

Proprio per quanto riguarda il lavoro degli attori, al termine della proiezione hai detto che hanno lavorato molto per sottrazione. Nei loro volti e nei gesti si nota una sorta di arrendevole passività, di accettazione amara delle proprie condizioni, che non scade mai in melodramma e che porta ogni impulso di ribellione sottopelle. Il personaggi interpretato da Fabrizio Falco, ad esempio, a tratti sembra vivere quasi piccole forme di nevrosi.

Ho cercato di raccontare i personaggi in funzione del luogo, un banco dei pegni dove è la relazione di ognuno di loro con il concetto di debito ad essere davvero centrale. Ecco perché alcuni tratti della storia sono volutamente ellittici. Del resto non avrebbe avuto molto senso mostrare atti di ribellione in un luogo in cui a farla da padroni sono il calcolo del profitto e la svalutazione del fattore umano. Era più naturale che le cose implodessero.

Fuocoammare, candidato italiano per l’Oscar dedicato ai film stranieri, ha contribuito a riportare grande attenzione proprio sul documentario, che nel frattempo vive un periodo di ritorno all’autorialità senza rinunciare però ad un pubblico più ampio. Cosa ne pensi?

Sono molto contenta della candidatura del film di Rosi, per almeno due motivi. In primis portare un documentario a questo tipo di risultato significa aprire la strada a possibilità produttive e distributive più indipendenti e quindi ad una maggiore libertà artistica per molti altri operatori del settore. Se valutiamo poi che un documentario consente di ampliare la propria conoscenza su una determinata questione al di là di ciò che viene mostrato dai mezzi di informazione, fornendo una storia di “controstoria”, Fuocoammare ha il merito di aver contribuito in maniera determinante, insieme a tante altre opere documentaristiche su Lampedusa, a costruire un’immagine concreta di quel luogo per lo spettatore. Rispetto a Sponde, ad esempio, che è uscito qualche mese prima, l’opera di Rosi si sofferma su un particolare periodo, un secondo momento dell’isola, quando le operazioni militari erano un po’ più lontane dagli occhi degli spettatori. Rosi filma con coraggio anche la morte stessa, mentre io avevo le mie motivazioni per non farlo…

Quali?

Sapevo sin dall’inizio che la morte era un elemento che non mi interessava. Alla base del mio ragionamento su Lampedusa c’è piuttosto l’assenza del corpo, perché è metafora di una mancanza, più ampia, di elaborazione del lutto. Si parla moltissimo delle tragedie dei naufraghi morti in mare ma non se ne vedono mai i corpi, un po’ come per le immagini dei morti nei campi di concentramento. Ed è proprio quella assenza ad essere emblematica.

Autore: Giorgio Sedona
Pubblicato il 24/10/2016

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