Intervista ad Andrea Sartoretti
Intervenuto al CinePalium Fest per la proiezione di Monte, l’attore ci racconta la sua collaborazione con Amir Naderi, ricordando l’attualità e la potenza simbolica di un certo cinema d’autore.
Andrea Sartoretti è sul palco del CinePalium Fest – IntersectingIdentities, festival cinematografico internazionale alla sua prima edizione – ma già con partnership e collaborazioni prestigiose nella sacca – che si prefigge l’oneroso intento d’intercettare e diffondere film e documentari collegati tra loro dall’essere “cinema dell’identità”; quel cinema, quindi, che celebra il processo di costruzione dell’identità di un individuo o di una comunità. Una sfida coraggiosa se si pensa che l’evento, in corso tra il 14 e il 18 novembre, si tiene in una piccola cittadina dell’hinterland barese, Palo del Colle, che per l’occasione ha aperto i propri spazi per l’allestimento delle cinque sale in cui snoderà in questi giorni un programma molto interessante, tra retrospettive dedicate al cineasta serbo Želimir Žilnik e omaggi al maestro della fotografia Renato Berta, film in concorso e “rassegne della critica” (dove si possono recuperare l’ultimo splendido Kaurismaki, e poi Linklater, David Robert Mitchell, Verhoeven, El Club di Larrain e il capolavoro di Jia Zhangke, Al di là delle montagne). L’occasione è la proiezione d’inaugurazione, affidata ad una delle pellicole più amate di Venezia 73: Monte di Amir Naderi. Con Sartoretti, protagonista, sul palco anche uno dei due sceneggiatori del film, Donatello Fumarulo – indimenticabile autore di Fuori Orario, nonché regista di numerosi documentari dedicati a grandi autori della settima arte, tra cui lo stesso Naderi (con Cut People. Amir Naderi, 2006) – e Gemma Lanzo, direttrice artistica del festival e moderatrice dell’incontro di introduzione alla visione.
A margine dell’evento d’apertura, con la generosa disponibilità che lo contraddistingue, l’attore si concede per un’intervista.
Nella tua carriera cine-televisiva hai lavorato a tanti progetti diversi, da grandi successi della serialità televisiva come Boris, Romanzo Criminale e Squadra Antimafia a diversi film italiani e internazionali, come Acab, Mission Impossibile III e Wax (dove hai lavorato con Pierfrancesco Favino, Tom Cruise, Jonathan Rhys Mayers e Rutger Hauer), ma non ti era ancora capitato di lavorare con un autore così radicale come Amir Naderi. Come è cominciata la vostra collaborazione per Monte?
È nato tutto in maniera piuttosto usuale. La produzione italiana gli aveva proposto degli attori, tra cui ovviamente c’ero anch’io. Bisogna precisare che Amir Naderi, come anche Makhmalbaf, altro regista iraniano che ho avuto la fortuna di conoscere, non fa provini; ne prova, anzi, un certo terrore, perché non ritiene che un buon casting sia di per sé garanzia di aver fatto una scelta che poi si rivelerà quella giusta sul set. Fa, piuttosto, degli incontri, delle chiacchierate in cui cerca di capire qualcosa in più di te e, a sua volta, si racconta. Sono felice che mi abbia scelto; lui, con le 99 vite che ha vissuto, con tutta la sua esperienza e umanità. Il solo fatto che lui pensasse che io potessi essere in grado di portare sullo schermo una storia che ricalca un po’ quella che è stata la sua vita e che è poi la parabola esistenziale di tante altre persone che si trovano dinanzi a delle sfide apparentemente insormontabili, mi ha procurato una grande felicità. La montagna contro cui il mio personaggio si scaglia per buona parte del film può simboleggiare qualsiasi difficoltà: un cancro, il viaggio della speranza di un immigrato. La montagna è l’impossibile. La montagna è qualcuno che ti dice “fermati, il tuo destino è questo”.
Ognuno di noi si è trovato dinanzi a questa montagna almeno una volta nella vita. Combatterla, dunque, equivale a dire che “il mio destino lo decido io”. In questo si dimostra un film profondamente umanista che ci dice che i miracoli non li fa Dio, né i santi, ma che è sempre stato l’uomo a farli. E se l’uomo è arrivato fin qui è proprio perché ha sconfitto cose che sembravano invalicabili, riuscendo a rendere possibile ciò che non sembrava esserlo con l’ossessione, la tenacia, la forza di cui solo l’essere umano può essere dotato. Se Agostino fosse stato un gatto o un cinghiale, sarebbe fuggito via da quella montagna maledetta. Soltanto l’uomo può decidere di rimanere saldo in tali avversità, perché è lui a sentire, nel profondo, la possibilità e la necessità di lottare contro quello che in dati momenti sembra essere il suo destino. O quello che altri vogliono propinargli come tale.
Il film è stato girato tra i duemila e i tremila metri di altitudine sulle montagne dell’Alto-Adige, in sette settimane di riprese, tra neve, isolamento e momenti di difficoltà notevoli, col rischio che la lavorazione potesse fermarsi in ogni momento. Per reggere la sfida di un set di Naderi ci vuole un fisico vigoroso ed allenato che permetta di sostenere i suoi ritmi, le ripetizioni, anche gestuali, delle sue ossessioni, le sue sfide, la forza tellurica delle scelte di messa in scena. Come ti sei preparato? Durante la lavorazione hai mai avuto un momento di ripensamento o di sfiducia?
In realtà non ho fatto una preparazione fisica pregressa perché ho sempre amato e praticato gli sport acquatici e mi sentivo in grado di affrontare le riprese, persino in quelle condizioni estreme. È vero, per ben quattro volte abbiamo corso il rischio che la lavorazione del film si interrompesse, ma queste avversità somigliavano talmente tanto a quelle raccontate in Monte, che, nei fatti, sono diventate un pungolo, uno sprone a portare a termine il lavoro. Sapere che dopo aver dato un enorme numero di picconate il film avrebbe potuto interrompersi e che magari avevo messo a repentaglio un braccio per nulla, mi ha dato la spinta per andare avanti. E in questo sono stato supportato da una squadra stupenda, senza la quale non saremmo mai arrivati fino in fondo, non in quelle condizioni, certamente. Anche quando sono stato fermo cinque giorni per una tendinite acuta, era la storia del film ad incitarmi a continuare. Stava lì ad insegnarmi che bisogna correre anche se si ha un piede azzoppato…
Infatti il personaggio che interpreti, Agostino, è un uomo testardo e risoluto che si scaglia con tenace veemenza, fino allo stremo delle forze, contro un’intera montagna. Alla fine è la sua volontà a vincere, portando a compimento quello che si potrebbe forse definire un miracolo laico, come dicevi. È un’immagine potente, piena di sofferto ottimismo.
È un film che ad ognuno lascia qualcosa, ammesso che lo si veda fino alla fine. Abbiamo notato che una piccola percentuale di persone tende a lasciare la sala prima del finale. E Naderi lo sapeva sin dall’inizio. Durante il montaggio mi disse: “vedrai che ci saranno spettatori che andranno via; quelle sono le stesse persone che anche nella vita scapperanno dalle loro montagne. Non mi interessa raccontare una sfida che non diventi davvero tale anche per i miei spettatori”. Questa forza, questa voglia di resistere, viene poi premiata con la luce. È uno di quei film che dopo i titoli di coda non ti lasciano parole in bocca, ma solo pensieri, riflessioni, da non sciupare. A volte dopo ventiquattr’ore qualcuno mi ha scritto: “è tutto il giorno che penso al film”. Ti rimane dentro quell’energia, l’emozione, quella vita.
Sappiamo che sei anche un cinefilo appassionato e che il tuo amore per il cinema è sbocciato già in tenera età a Parigi sull’onda dei film della nouvelle vague che passavano in tv. Oltre ad un prezioso omaggio a Zelimir Zilnik, CinePalium ospita una retrospettiva dedicata a Renato Berta, che ha lavorato con Manoel De Oliveira, Straub-Huillet, Mario Martone e con molti dei padri della nuova onda francese: Godard, Rohmer, Resnais, Chabrol. Cosa può trasmettere allo spettatore contemporaneo la sensibilità di questi autori?
La nouvelle vague è il mio primo amore e più passa il tempo più mi rendo conto di quanto i film che appartengono a questa corrente siano ancora di un’attualità disarmante. Pensa alla storia di Antoine Doinel, un discolo che dinanzi all’oceano, cui è arrivato per caso dopo una corsa sfrenata senza averlo mai visto prima, scopre all’improvviso la vastità della vita e diventa uomo. I film dei grandi autori non hanno tempo. Te lo fanno dimenticare, il tempo. Certo i gusti cambiano, si evolvono. Al momento sono molto affascinato dai registi capaci di farmi scordare la macchina da presa. Mi ha colpito molto A Ciambra di Carpignano, per esempio. Ma adoro anche Matteo Garrone, soprattutto L’imbalsamatore e il Sorrentino dei primi film.
A cosa stai lavorando al momento?
Con Donatello abbiamo in mente di fare un documentario. Abbiamo già incontrato le persone che vorremmo coinvolgere, attori non professionisti che dovranno semplicemente “essere se stessi” sullo schermo. Sarà ambientato a Roma e parlerà di cosa significa sentirsi a casa anche per chi non è magari nato lì. A breve poi ho l’inizio delle riprese del nuovo film di Eros Puglielli, regista cui sono molto legato perché il suo Dorme è un cult per la mia generazione. E’ un’opera che si allontana dal mistery che aveva abbracciato ultimamente e ritorna alle origini con una commedia dell’assurdo. Per ultimo c’è una cosa che non vedo l’ora di capire se riuscirà ad andare in porto: con Ciarrapico e Vendruscolo, di Boris, abbiamo girato la puntata pilota di una serie che dovrebbe chiamarsi Zago. Il pilota è piaciuto e abbiamo già avuto un paio di proposte, quindi non resta che sperare che possa diventare una nuova serie televisiva.