Disconnect

di Henry Alex Rubin

Da sempre esiste la tendenza a considerare la comunicazione vis a vis come la forma espressiva più pura e autentica che esista fra gli esseri umani. Non stupisce dunque che la nascita di ogni tipo di contatto a distanza abbia portato con sé, assieme all’euforia del superamento dello spazio, il timore che potesse intaccare quella preziosa integrità insita nel parlarsi dal vivo. Si ritrova periodicamente nei discorsi la nostalgia per un ipotetico quanto vago periodo d’oro arcadico in cui la gente si guardava dritta negli occhi e si diceva le cose in faccia; in questo caso il sottotitolo perfetto di Disconnect potrebbe essere “si stava meglio una volta”, o del come la tecnologia ci abbia reso più distanti e cattivi. Cyber-bullismo, truffe digitali, porno virtuale, il peggio del web è raccontato nel film di Henry Alex Rubin: due adolescenti si fingono su Facebook un’utente donna per spingere un compagno di scuola a mandare foto intime per poi perseguitarlo pubblicamente, una coppia in crisi scopre di essere stata derubata da un individuo che si è impossessato dei loro dati, una giornalista intervista un ragazzo che si guadagna da vivere spogliandosi davanti alla webcam. Tutti convinti di essere al sicuro perché nascosti dietro uno schermo, perderanno le loro basi di riferimento quando saranno costretti a tornare alla realtà.

Troppo facile però costruire una storia di plateale denuncia rifuggendo da analisi più complesse che potrebbero mostrare cose di noi poco gradevoli. Disconnect affronta la duplice reazione dell’essere umano al web prodotta dalla distanza fra gli interlocutori, espressa nella simultanea capacità di aprirsi su se stessi o mentire del tutto, spie forse del medesimo istinto nascosto dall’educazione a dare voce ai propri istinti più profondi, siano la cattiveria, la voglia di piacere o la disperazione. Il problema sta nell’impregnare di significato un mezzo che di per sé è in realtà vuoto, dandogli un potere che non lo rappresenta. Medium, quindi tramite degli esseri umani, e ambasciator non porta mai pena: ma per deviare lo sguardo degli spettatori da se stessi il film preferisce puntare il dito sulla tecnologia digitale che ci fa vivere in una paranoica quanto deviata connessione costante con il mondo, come se fosse stata lei a costringerci ad attaccarci ai nostri social network e ai nostri telefonini finendo per ignorare quello di cui sta parlando la persona che ci sta di fronte; una visione che non fa fare una bella figura al genere umano, dipinto come popolo che va difeso da se stesso con la censura e l’oscurantismo perché spinto dal progresso a dare, perlopiù, il peggio di sé.

L’obiettivo che Disconnect manca è invece proprio raffigurare l’infinita crudeltà umana, come il suo bisogno di amore e la sua nascosta paura di essere abbandonati, sentimenti e pensieri che esistono da sempre e che non è possibile considerare esacerbati dalle nuove tecnologie, ma al massimo più evidenti di come erano prima. Invece di usare allora i nuovi mezzi di comunicazione come opportunità per riflettere su aspetti dell’animo che forse non si erano ancora palesati così distintamente – ma perché, non lo sapevamo che l’uomo sa agire in modo aberrante quando pensa di non essere visto? – il film sceglie una lettura più quieta secondo la quale una volta spento il pc tutti i nostri peccati verranno purificati. Nessuno mette in dubbio che esistano poche cose salvifiche come il contatto umano, ma andare a dormire dopo essersi cancellati da Facebook non cambierà di molto la natura dell’uomo. A chi lo crede, temiamo che il risveglio riserverà una triste sorpresa.

Autore: Veronica Vituzzi
Pubblicato il 16/08/2014
Usa 2012

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