Happy Goodyear

Decessi, malattie ed inquinamento. Happy Goodyear, un documentario sociale che indaga sull'opificio Goodyear.

«A single death is a tragedy,a million deaths is a statistic.»

(Massima attribuita a Stalin dal New York Times nel 1958, ma senza fonte accertata)

MORTI PORTO MARGHERA. Nel 2001 si chiude il processo contro il polo industriale petrolchimico di Porto Marghera. Morti accertate 157, più 103 ammalati che molto probabilmente avranno la stessa sorte. L’intenso inquinamento provocato dall’industria ha anche provocato decessi agli abitanti intorno al complesso e ha creato gravissimi danni ambientali alla laguna. Ma le morti sicuramente saliranno.

MORTI ETERNIT. Nel 2009 è cominciato il processo contro la fabbrica Eternit sita a Casal Monferrato. Udienza, nata in seguito alle indagini del PM Raffaele Guariniello, contro Stephan Schmidheiny e il barone Belga De Cartier de Marchienne, per le numerose morti di ex operai delle fabbriche Eternit. Si stimano oltre 2300 morti, ma la cifra sicuramente si ingrosserà.

MORTI ILVA. Il gruppo Ilva, polo industriale di Taranto che produce acciaio, viene ritenuta colpevole che nella fabbrica non vengono rispettate le norme di sicurezza. In tredici anni più di 386 morti, oltre ad altrettanti decessi tra gli abitanti intorno alla fabbrica. Oltre ai conseguenti danni ambientali. Anche qui la conta dei morti non si fermerà.

MORTI THYSSEN-KRUPP. Tra le tragedie accadute nelle fabbriche e/o nei complessi industriali sul suolo italico, probabilmente quella della gigantesca azienda siderurgica tedesca è una bazzecola. Tra il 5 e il 7 dicembre 2007 sette operai muoiono per una fuoriuscita di olio bollente, che poi prende fuoco. La conta dei morti è veramente una sciocchezza in confronto alle quantità precedenti, ma il modus operandi che aziona la tragedia è lo stesso: mancanza di sicurezza da parte della fabbrica verso i propri operai.

Questa è solo uno sparuto elenco di alcune note tragedie lavorative che hanno capeggiato sulle prime pagine dei giornali o dei telegiornali. Praticamente solo uno schema di morti umane e conseguenti statistiche matematiche. Drammi lavorativi che hanno sempre il solito finale e che si incasellano nelle usuali tragedie. Una nera lista che disegna una luttuosa cartina italica, dal Nord al Sud, passando per il Centro. A queste notizie di cronaca nera si aggiungono anche i decessi avvenuti nell’opificio Goodyear. Morti accertate, fino ad ora, oltre 200 persone. Causa dei decessi: tumori, linfomi, leucemie. Ma di questa notizia si sa poco, a volte qualche trafiletto sulle grandi testate nazionali. Fortunatamente, per merito di due caparbie giornaliste che si interessano al caso, il tragico fatto trova ampio spazio sui quotidiani di Latina. Nome dell’assassino: Goodyear; luogo della tragedia: Cisterna. Unendo questi due nomi, quasi degli ossimori, sembra quasi fare della stupida ironia. La Goodyear è una multinazionale americana che produce oggetti di gomma, nello specifico pneumatici. Il marchio è noto a tutti, lo vediamo soprattutto capeggiare nei mondiali di Formula 1. È un forte sponsor che spende molto per ingigantire e rendere splendente la sua immagine. Terza produttrice di copertoni nel mondo, la Goodyear fu fondata nel 1898 nell’Ohio da Frank Seiberling, e il nome è in omaggio all’inventore della gomma vulcanizzata: Charles Goodyear. Nel 1964 viene aperto un grosso stabilimento a Cisterna, comune nella provincia di Latina. La localizzazione e la costruzione viene anche scelta, per non dire pilotata, per gli stanziamenti dei fondi della Cassa del Mezzogiorno, che era stata istituita con legge il 10 agosto del 1950 dal Quarto governo De Gasperi. La creazione di questo finanziamento era per aiutare a industrializzare il Sud Italia e creare così un equilibrio industriale/economico con il già industrializzato Settentrione. Quindi anche la Goodyear può accedere a questo incentivo, soprattutto perché localizza la fabbrica a Cisterna, che è situata proprio pochi chilometri dopo la linea che definisce il Meridione, cioè il Mezzogiorno.

Il documentario Happy Goodyear delle registe Laura Pesino ed Elena Ganelli parte proprio dalle loro inchieste, che avevano incominciato a trattare sui giornali di Latina. Hanno seguito il caso e hanno intervistato i pochi sopravissuti che portano sul loro corpo e nelle loro vite private i segni di quella spietata esperienza. Vedendo questi sopravvissuti che rievocano quelle giornate lavorative e ricordano i colleghi che sono morti con il passare del tempo, sovviene alla mente, a mo’ di citazione pertinente, il titolo dell’ultima opera di Primo Levi, I sommersi e i salvati. La fabbrica è stata per questi operai come un lager, in cui si lavorava per realizzare un sogno di libertà, un piccolo benessere per la propria famiglia. Cisterna, dopo tutto, era una cittadella che si sosteneva di agricoltura, e l’arrivo di questa illustre industria faceva ben sperare. Diciamo un American Dream innestato sul suolo campagnolo. Il complesso industriale della Goodyear ormai è un rudere che inquieta ancora. Inquieta soprattutto con le descrizioni di Agostino Campagna, uno dei lavoratori sopravvissuti, che conduce la troupe in quell’immenso concentrato di cemento ed erbacce. Campagna insegna alle due giornaliste (e al pubblico), come era organizzata logisticamente la fabbrica e di come la sicurezza era completamente sconosciuta e/o non applicata. La furbizia del colosso industriale faceva leva sull’ingenuità degli operai, che erano abbagliati dall’onore di lavorare in una società di rinomato nome internazionale e avere un posto sicuro e una retribuzione garantita. Anche Fausto Mastrantonio, l’intervistato più segnato e corroso dalla malattia, ma ancora combattente e forte, conferma come quella sicurezza economica e quel benessere li hanno pagati in modo molto caro. Fausto morirà il primo gennaio 2013.

Happy Goodyear ha vinto il premio come miglior documentario italiano al Riff del 2014. 52 minuti d’inchiesta in cui le due registe cercano di portare alla luce, oltre gli articoli che avevano realizzato sulla carta stampata, l’ennesimo caso di stillicidio di morti sul lavoro. Happy Goodyear si muove tra il luogo del delitto (ormai divenuto luogo del relitto) e le interviste ad alcuni operai, che evocano il passato e raccontano come stanno vivendo il penoso presente, scandito tra il non sapere quanto tempo gli resta da vivere e la risposta della giustizia. La mancanza nel documentario della presenza controparte, cioè la società Goodyear, non è voluta, ma semplicemente la Goodyear si è rifiutata di rilasciare dichiarazioni. Questa casuale mancanza ha però marcato il documentario, che oltre all’inchiesta giornalistica mette in rilievo anche l’intrinseco aspetto umano. L’ultima parte del documentario segue la Sentenza di Appello, in cui la Goodyear viene assolta. I salvati, distrutti dalla infausto verdetto, non si danno per vinto e dichiarano che continueranno a lottare. Infatti il processo contro la Goodyear è giunto al terzo grado di giudizio. Le diciture finali (bianco su nero) sono come lapidi, e anche in questo ennesimo caso di dramma, torna sempre alla mente la beffarda e cinica massima attribuita a Stalin. Lì si parlava di soldati, qui di anonimi operai, ma alla fine gli operai sono come soldati che muoiono sul campo. Happy Goodyear ha un taglio televisivo, anche per il basso budget che ha avuto a disposizione. Documentario piccolo, sia inteso come metraggio e sia come materiale trattato, ma documento utile per dare spazio e fruibilità divulgativa a questa losca vicenda, che ancora è poca trattata e poco conosciuta a livello nazionale.

Autore: Roberto Baldassarre
Pubblicato il 08/08/2014

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