In grazia di Dio

Sorprendersi, «provare sempre a essere degli autori pieni di curiosità per il mondo, mossi dall’ansia autentica di raccontare quello che ancora arde sotto la cenere. Il resto è niente». Il cinema secondo Edoardo Winspeare è questo, esigenza di scoperta, ricerca continua. E nel suo cinema che brucia, sin dall’inizio, il mondo è sempre stato rintracciato e reinventato lì, a Sud, come un’epifania in Pizzicata, tracciato fra i contorni sfrangiati e il Sangue vivo del Salento. Il mondo narrato nel movimento di una danza misteriosa, insieme violenta e poetica, fra le movenze di un’umanità che spesso ha un dolore, una ferita da guarire, tra uno sparo e un prodigio. Perché è un’emozione in purezza il cinema, anche quando le smarginature si allargano, quando una volta, un «Venerdì Santo», ricorda il regista, «i filosofi e i mistici che ai miei occhi erano diventati gli abitanti di Taranto mi toccarono il cuore io rimasi folgorato da questa città emozionante. Cinque anni dopo girai Il miracolo». Il ritorno assumerà le sembianze dei Galantuomini, poi, diventerà uno splendido approdo con In grazia di Dio.

Winspeare si è preso il tempo necessario, il tempo di caricare il suo sguardo mite della necessità di una storia. L’ha cercata come si fa con un senso e l’ha trovata osmoticamente in quello che lo circonda. Per questo In grazia di Dio – scritto con Alessandro Valenti e presentato in Panorama alla scorsa Berlinale – ha un respiro lungo e salvifico, una frequenza cardiaca (non era qui che gli antichi allocavano l’anima e il coraggio? E non è con il suono di un ecografo collegato al cuore di una nuova vita che Winspeare ha voluto sostanziare la silenziosa colonna sonora?). La storia di quattro donne che hanno braccia forti, sguardi fieri, parole guerriere armate dal dialetto e una bellezza disarmante. Adele (Celeste Casciaro, moglie di Winspeare) la protagonista, sua figlia Ina (la figlia di Celeste, Laura Lichetta), sua sorella Maria Concetta (Barbara De Matteis) e una matriarca che ha un nome da preghiera, Salvatrice (Anna Boccadamo).

Nel piccolo paese di un Salento che non suona e non canta, si consuma la crisi di una piccola azienda tessile familiare, costretta a chiudere dalla concorrenza disumana della manodopera da pochi euro, mangiata dai debiti contratti con una finanziaria famelica e corrotta. Svenduto tutto quanto si era costruito con il sacrificio dell’emigrazione svizzera paterna, con lo strappo dell’assenza e della lontananza, le quattro donne si ritirano in campagna e cominciano a ricucire, punto dopo punto, una tela di sopravvivenza fatta di baratto, frutti degli alberi, amori fioriti inaspettatamente o violati ma leniti dal sentimento muliebre a creare un cerchio protettivo. Il movimento precipuo è quello del ritorno, indubbiamente. Alla terra, innanzitutto, che forse offre il ricovero più giusto, il balsamo per chi perde e si perde. Lo stormire delle foglie, il verde corticale, il mare che sconfina, i cicli del raccolto sono pacificanti, ci riconducono al centro di un’umanità che ha bisogno di poco per essere felice. L’essenziale negli occhi, sulla bocca, sotto i piedi, sulla testa. In grazia di Dio è un film che acquieta chi lo guarda, consegnati come si è a due ore di attraversamento ancestrale, di richiamo millenario. Tragico rigorosamente, ma anche lieve, il film cammina sul passo fiero delle sue protagoniste, donne vere non attrici ma meravigliose interpreti, incastona il suo sguardo sui loro occhi che sono nodi di dominazioni. E tutto diventa semplice, si concede il tempo della legge naturale, non c’è artificio né di ripresa né di racconto, eppure è tutto morbidamente compiuto. Così, quando si sente Winspeare dire che ha fatto un film ecologico, occorre andare alla radice di questa parola e credergli, perché con In grazia di Dio è davvero tornato a casa, lì dove il suo occhio sa vedere, la lingua raccontare e il cuore battere.

Autore: Leonardo Gregorio
Pubblicato il 17/08/2014

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