French Connection

Operazione superficiale sul canone dei romanzi criminali

A dispetto del titolo, e più in generale della storia che racconta, ispirata al traffico di eroina sul fronte Marsiglia-New York, French Connection ha poco a che vedere con il capolavoro di William Friedkin del 1971. E’ una questione di sguardo naturalmente, ma forse anche di tempismo. Poco più di quarant’anni separano le due pellicole, un intervallo di tempo enorme che misura la distanza tra due ipotesi cinematografiche radicalmente diverse - l’una nervosa, adrenalinica, fisica, l’altra levigata, pulita, rassicurante - e anche tra due epoche, in cui il cinema aveva un ruolo e un peso totalmente differente nelle società occidentali. In questo senso French Connection si inserisce a pieno titolo nel filone dei romanzi criminali strappati ai fatti di cronaca degli anni 70, tornati in voga negli ultimi anni. Nostalgia del tempo e del cinema che fu? Forse. Ma senza timori reverenziali né modelli precisi ai quali attenersi. Piuttosto questo, così come altri film di genere coevi, sembra inseguire un imprecisato stile “americano” sulla falsariga delle epopee criminali di Scorsese, fatta di continue sequenze di montaggio, musiche cool che dettano il ritmo, ammiccamenti (indiretti) in favore di camera. Puro cinema pop, sebbene in un senso diverso, e molto più normalizzato rispetto alla definizione che ne diede Sean Penn ai tempi della presentazione a Cannes del Divo di Sorrentino. Non c’è tempo per le introspezioni psicologiche, quello che conta è piuttosto il racconto del contesto storico, la ricostruzione d’epoca con tutto l’apparato tecnico e feticistico che comporta (cura minuziosa di luoghi, dettagli, volti, costumi). La vera protagonista dell’opera è infatti la città, Marsiglia, filmata in tutto il suo assolato splendore mediterraneo che ribalta i canoni del setting poliziesco: non ci sono zone d’ombre né strade luride o fradice di pioggia. Tutto avviene, appunto, alla luce del sole, nelle stanze segrete del potere politico, in combutta con le organizzazioni criminali, vicine alla mafia corsa, oppure nelle villette a strapiombo sul mare in cui si produce l’eroina. Di notte, quando la città dorme, si mettono in piedi attività di copertura, come una discoteca, utili a reinvestire e riciclare il denaro sporco. Un circolo economico perfettamente levigato che tiene insieme l’immissione nel mercato di una nuova droga potentissima e il mondo del divertimento notturno, due dimensioni che negli anni Ottanta troveranno, in parallelo al tragico declino dei protagonisti, una saldatura definitiva. Come in ogni poliziesco che si rispetti i personaggi principali sono due facce della stessa medaglia, entrambi padri di famiglia e mariti amorevoli (sebbene distratti dal lavoro) che credono fortemente in quello che fanno. A tal proposito viene in mente la celebre (e discutibile) stroncatura Morettiana di Heat ai tempi di Aprile, in cui si insisteva proprio sul carattere speculare dei personaggi del film, senza però tenere conto delle sfumature che ne hanno fatto una pietra miliare nella storia del genere. Ebbene, quella banalizzazione morettiana ci sembra molto più pertinente qui, in virtù dei limiti che il film francese denuncia quasi subito. Ovvero un’evidente mancanza di complessità sentimentale e/o psicologica che banalizza gli eventi e soprattutto i caratteri, come se l’obbiettivo primario non fosse tanto raccontare il dolore e il sacrificio della carne quanto piuttosto replicare, con apparente noncuranza, un canone superficiale nel quale gli spettatori potessero riconoscersi. Ecco allora che i due interpreti, Jean Dujardin e Gilles Lellouche, scelti probabilmente anche per la loro somiglianza fisica, appaiono ideali in quest’opera di levigatura delle superfici. Peccato però che le espressioni e il volto da guascone di Dujardin, mal si adattino al giudice ragazzino che avrebbe dovuto interpretare. Troppo compiaciuto, troppo piacione per rendere sullo schermo una personalità al contrario tanto rigorosa. Con il risultato quindi, di privare di credibilità il suo personaggio minando fino alle fondamenta la tenuta complessiva dell’opera, che in più di un momento sembra denunciare, involontariamente, più simpatia per il criminale che non per “l’eroe” buono. In questa piattezza generale si impone, anche in virtù di un personaggio totalmente sopra le righe, il “matto” di Benoît Magimel che per alcuni minuti fa saltare il piano simmetrico orchestrato dal regista, Cédric Jimenez. Ma era solo un fuoco di paglia: tutto rientra ben presto nei binari consueti, fino al prevedibile finale.

Autore: Giulio Casadei
Pubblicato il 29/03/2015

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