Fast and Furious 6

“Ci sono film che sono più film degli altri” diceva qualche tempo fa il collega e amico Emanuele Protano parlando di Die Hard. Si è vero, ci sono film che sono più film e Fast and Furious 6 è uno di questi, e senza stare troppo a speculare sulla soggettività di quel “più”, chi ha da intendere intenda.

Fast and Furious 6 è sul serio un grande film. Non è una delle nostre solite provocazioni. Lo sottolineiamo perché chi scrive tende spesso a giocare con la fascinazione per le produzioni più tamarre e fracassone, con quella particolare predilezione per l’action che chi legge Point Blank può ravvisare in più articoli firmati dal sottoscritto. Ma non è questo il caso in cui ci si trova a difendere con ferocia militante un prodotto che altrimenti sarebbe bistrattato velocemente dalla nostra critica triste e approssimativa, no: Fast and Furious 6 è un’opera pienamente riuscita per numerosi motivi, tutti cinematografici, che, presi uno ad uno e utilizzando le più rigorose griglie analitiche, non lasciano oggettivamente scampo: siamo di fronte ad un grande esempio di cinema puro.

Iniziamo con il dire che il valore meno celebrato dei migliori film d’azione è costituito dagli sceneggiatori. Ancor più di altri generi, l’action ha bisogno di scrittura. Scrittura che però non significhi necessariamente narrazione (Dio ce ne scampi) ma scrittura filmica, scrittura del, nel e per l’immagine. Parliamo di un approccio già visivo allo script che permetta di instaurare una relazione privilegiata con il comparto registico-produttivo. Scrivere un action non è per nulla semplice (basta vedere quanto scarseggino qualitativamente gli action movie occidentali contemporanei): bisogna sapersi reinventare, ideare sequenze in costante sinergia con il regista che siano inedite dal punto di vista coreografico e visivo, che sappiano valorizzare il mirabolante lavoro degli stuntmen quanto la magia del CGI; bisogna avere molta più fantasia di quanta ne serve oggi per scrivere un noir o una storia d’amore. Questo perché i clichés dell’action invecchiano più facilmente e, essendo un genere che si alimenta di esagerazione, diventa sempre più difficile capire qual è il “troppo” giusto e qual è quello sbagliato.

Chris Morgan, lo sceneggiatore di Fast and Furious 6, sa bene qual è il suo compito: costruire l’architettura narrativa e concettuale in cui ambientare l’azione e darle il giusto spazio, rendendola protagonista pur mantenendo i toni sempre leggeri (ma mai farseschi), bilanciando sapientemente eccesso, colpi di scena, sfumature di commedia e pause di distensione come si potrebbe pensare di fare per un ordito sinfonico. Morgan sa infatti che anche le pause, per quanto ridotte ai minimi termini, sono pur sempre “parte” (come direbbe Beethoven); anche le pause sono musica e pertanto sono fondamentali per costruire l’alternanza tra pianissimo e fortissimo e per pianificare sapientemente l’esplosione del climax. L’attenzione a tutti questi particolari e la peculiare coesione tra tutti i comparti artistici e tecnici ha fatto inoltre si che questo capitolo di Fast and Furious sia riuscito a superare il precedente affermandosi prepotentemente come il migliore della serie, una delle poche che migliora di episodio in episodio.

Spenderemmo ancora due parole sulla sceneggiatura perché, ad uno spettatore disattento, Fast and Furious 6 potrebbe sembrare un’opera che maschera “messaggi” di dubbio gusto (la famiglia prima di tutto, Dio premia i giusti e punisce i malfattori, etc.) sotto i cazzotti e le esplosioni che ottenebrano il pensiero e non fanno “pensare” (c’è ancora qualcuno che non s’offende quando sente dire che il cinema dovrebbe pensare al posto tuo o farti sentire più intelligente, impegnato o preparato?). Niente di più sbagliato. Sfogliando gli studi sul cinema melodrammatico (e in particolare sul family melodrama americano) si può apprendere come lo stile, la sceneggiatura e la messa in scena siano stati quasi sempre utilizzati (più o meno esplicitamente) per crepare e minare il sostrato ideologico di un film. Molti capolavori della storia del cinema classico (tra cui buona parte dei melodrammi di Douglas Sirk, pieni tra l’altro di corse in auto e scazzottate…) vivono un dissidio interno tra istanze produttive, tentativi di colpire questo o quel target e guizzi artistici, lampi anarchici, contraddizioni ed eccessi che ci fanno capire che qualcosa non torna. Ma questo lo si capisce solo a freddo, ragionando sul testo con cui si è venuti in contatto. Avatar, grande melodramma contemporaneo, è stato scambiato da più parti come un’opera reazionaria e razzista mentre proprio nell’arci-reazionario stato del Kentucky un critico di destra si scagliò contro la stupidità del pubblico americano che si alzava in piedi applaudendo al termine della proiezione non rendendosi conto di acclamare una feroce critica agli Stati Uniti.

Anche Fast and Furious 6, benché non ambisca a mire artistiche e politiche così alte come quelle di James Cameron, è in questo senso un testo ambiguo e riesce, grazie al lavoro sull’eccesso, a minare dall’interno gli stessi valori che mette in scena, ridicolizzandoli sottilmente, presentandoceli come una dissonanza, qualcosa che salta all’occhio come fuori contesto. Sono pertanto più i riferimenti all’importanza della famiglia a risultare assurdi rispetto alle incredibili scene d’azione che si susseguono nel film in barba a qualsiasi realismo o legge fisica.

E veniamo quindi alla regia: Justin Lin aveva già mostrato di saperci fare con il precedente capitolo della saga F&F, regalandoci alcune delle sequenze più complesse, coinvolgenti e ben costruite che si potessero sognare in un blockbuster contemporaneo (riguardatevi la scena della cassaforte a Rio e poi provate a dire di no). In questo sesto capitolo, preceduto da titoli di testa che sintetizzano in pochi secondi tutti gli avvenimenti più importanti dei film precedenti (un complesso “previously” che rimanda palesemente alla serialità televisiva) Lin ha l’arduo compito di superare se stesso. E ci riesce, dimostrando di possedere una tavolozza registica di altissimo livello, riuscendo a spaziare dall’estetica caper movie al videoclip, il film d’arti marziali mutuato dall’oriente, passando ovviamente per l’action puro di matrice anni ’80 fino ad arrivare a quello che ormai sembra essere il genere che ha maggiormente contagiato la saga con protagonista Vin Diesel: il western. Anche gli sporadici passaggi kitsch o di cattivo gusto sono più coerenti e misurati rispetto al passato (una sola panoramica al centro del film che passa dall’inquadrare una fila di terga femminili in bikini per poi planare sul particolare di motori rombanti, come a sintetizzare tutto il mondo di Fast and Furious con grande maestria ed ironia).

Ci avviciniamo alla conclusione di questa appassionata recensione sottolineando come anche il cast sia impeccabile, perfetto e sempre all’altezza. Bestioni tutti muscoli e maggiorate che sappiano anche recitare e passare da atmosfere comiche a momenti di improvvisa tensione emotiva sono molto rari a trovarsi. Vin Disel, The Rock e compagnia si divertono (e si vede) ma si prendono sul serio quel che basta per non scadere nella buffonata (al contrario di Iron Man 3). Come accade quando il film è veramente bello anche qui l’apologia tramite parola esaurisce il suo potenziale e rimane il forte invito a lasciarsi andare ad un’esperienza fisica di grande impatto. Infine, se fosse ancora necessario sostenere la nostra tesi potremmo chiamare in causa ancora una volta William Friedkin, il quale, ogni volta che si vede domandare “qual è l’essenza del cinema?”, risponde: inseguimenti in automobile e combattimenti corpo a corpo. Con buona pace dei rosselliniani.

Ci piacerebbe ora concludere con dolcezza grazie ad una nota autobiografica. E’ stato doppiamente piacevole scrivere di quest’opera magistrale perché mi ha permesso di festeggiare due anni di collaborazione con la rivista che state leggendo, sulla quale esordii proprio con una recensione di Fast and Furious 5. Il post titoli di coda di questo episodio suggerisce che forse il settimo capitolo della saga sarà il più bel film della storia del cinema, ma non vogliamo svelarvi troppo. Andate in sala, mettetevi in prima fila e godetevi un’opera che dimostra cosa vuol dire spettacolo. Perché il cinema senza spettacolo non è più cinema, e sarebbe un peccato.

Autore: Tommaso Di Giulio
Pubblicato il 04/01/2015

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