Fai bei sogni

Bellocchio parte da Gramellini per costruire un’opera complessa e commovente sulle difficoltà di crescere senza l’affetto di una madre.

C’è qualcosa in Fai bei sogni di Marco Bellocchio che si rapporta direttamente all’inconscio, ombre dell’immaginazione e della vita che non parlano ma si proiettano, disturbanti come le ombre sul muro di Sorelle mai (2010), sulle pareti della psiche. E lì si annidano pervicaci, ombre in mezzo ad altre ombre.

A generarle non è (sol)tanto il nucleo drammatico tratto dall’omonimo romanzo di Massimo Gramellini – lo sradicamento per la perdita dell’amore materno, l’elaborazione del lutto, la solitudine infantile, inneschi di una vera e propria “proibizione dell’essere” (proprio quando l’essere sta per dispiegarsi nella crescita preadolescenziale), vuoto devastante e commovente che non può lasciare indifferenti – ma una precisa identità stilistica. La fotografia acromatica di Daniele Ciprì, a catturare l’infanzia derubata del sorriso iridescente della mamma; il montaggio oscillatorio di Francesca Calvelli, che confonde passato e presente nella ricorsività persecutoria del trauma; i fantasmi in bianco e nero della tv di cinquant’anni fa (Canzonissima, ma soprattutto Belfagor); le scelte musicali (“Resta cu’ mme, nun me lassà” canta Modugno alla radio mentre una bravissima Barbara Ronchi lo ripete, piangendo, al figlio Massimo). Tutto parla di una mancanza ormai ontologica, onnipresente quanto razionalmente inaccettabile e indicibile, sopportata, non a caso, grazie alle rassicurazioni oltremondane della Chiesa, alle menzogne famigliari, alla compagnia immaginaria di spettri come Belfagor, il fantasma del Louvre protagonista della celebre serie televisiva francese andate in onda sulla Rai nella seconda metà degli anni Sessanta, vista e rivista tra le braccia materne, nel buio uterino rischiarato dalla luce maieutica del tubo catodico.

La morte trasforma il corpo della madre, sorgente della vitalità del bambino, in una figura impalpabile, intangibile, inafferrabile, che può rivivere solo nella re-invenzione del sogno e del ricordo, nelle immagini mentali, nel surrogato eidetico, nella persistenza della memoria.

Mantenendo le indicazioni (auto)biografiche del romanzo di partenza, a distanza di trent’anni dal tragico evento, Massimo (interpretato nell’età adulta da Valerio Mastandrea) si è fatto strada come giornalista, scrivendo di calcio, della nascita della Seconda Repubblica sulle ceneri di Mani Pulite, della guerra di Bosnia a Sarajevo. Ma è come se la sua forza reale e le sue energie più sincere restino bloccate; i suoi pugni, per dirla bellocchianamente, restano “in tasca”, le emozioni represse sfociano nel panico. È proprio durante un attacco che Massimo conosce Elisa (Bérénice Bejo), una dottoressa che lo sveglia dal torpore della menzogna e lo aiuta ad affrontare la verità. L’amore che ne scaturisce e la catarsi d’una scrittura finalmente personale, in cui può mettere davvero “tutte le sue lacrime” (come gli suggerisce di fare il direttore che gli ha appena affidato la rubrica di posta sentimentale del giornale) in una lettera di risposta ad un figlio che minaccia di uccidere la madre, innescano allora un processo di trasformazione che lo porta a liberarsi lentamente dal peso fangoso del passato.

E Bellocchio sottolinea splendidamente questo passaggio cruciale – l’avvio incerto del processo di riparazione che permetterà al protagonista di proseguire nel suo percorso formativo adulto – in una delle scene più belle del film. Massimo, ormai celebre per la risposta alla lettera, sta cercando di raggiungere Elisa per festeggiare con lei le nozze di diamante dei suoi nonni. Smarritosi nell’agro fuori città, scorge improvvisamente un casale illuminato e capisce che si tratta del luogo della festa; allora scende dall’auto e inciampa goffamente nel filo della recinzione elettrificata destinata ai cinghiali, prendendo una leggera scossa. Elisa lo aspetta nella villa invasa dall’allegria chiassosa dei parenti e dalla musica. Massimo, stordito, cerca di ambientarsi. E per la prima volta, lentamente, si lascia andare fino ad esplodere in un ballo frenetico e liberatorio (come il twist che balla da piccolo con sua madre in una delle prime scene del film). I pugni lasciano le tasche, si agitano a tempo, finalmente smollati, scomposti. Si aprono per cercare il corpo di Elisa, la conducono nella licenziosità della danza, nello scatto felice fuori dalla sala, con l’atteso bacio a pochi passi dall’uscio. È da qui che Massimo può ripartire, dall’amore di Elisa che è l’unica forza in grado di assicuragli bei sogni e che gli permette di tornare, almeno per gli ultimi, meravigliosi istanti del finale, tra le braccia di una madre che non smetterà mai di comparire e scomparire, in un nascondino indefinito e terrorizzante in cui non si può far altro che continuare a cercare.

Autore: Domenico Saracino
Pubblicato il 08/12/2016

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