
Ammaliante, potente, cupo. Il nuovo lavoro di Atom Egoyan, Devil’s Knot – Fino a prova contraria, narra in forma drammatica le vicende di un fatto di cronaca talmente celebre negli Stati Uniti da aver ispirato la realizzazione di ben quattro documentari antecedenti al film del regista armeno. L’ultimo, acclamato dalla critica mondiale, West of Memphis, è stato prodotto da Peter Jackson e presentato al Sundance Film Festival nel 2012.
Siamo nel 1993. La vita scorre tranquilla nella cittadina di West Memphis, Arkansas, tra le mura di villette residenziali abitate da tipiche famiglie americane, serene e devote, dedite a curare il proprio angolo di giardino e ad andare in chiesa la domenica. Un giorno il piccolo Stevie Branch esce per una delle sue solite scorribande in bicicletta, salutato dallo sguardo fiero e leggermente apprensivo della madre, Pam Hobbs, una brava Reese Witherspoon. Stevie non tornerà mai più a casa. Dopo giorni di estenuanti ricerche, il suo cadavere sarà ritrovato in un torrente lì vicino insieme a quelli dei compagni Micheal Moore e Christopher Byers. Esanime, nudo, braccia e gambe legate con i lacci delle sue stesse scarpe, il rinvenimento del corpo del piccolo Stevie compone una delle immagini più forti e toccanti dell’intera pellicola.
L’orrore legato alla scabrosa vicenda, però, è appena ai suoi inizi. Saranno infatti accusati del crimine tre adolescenti, Damien Echols, Jessie Misskelley, Jr. e Jason Baldwin: i “West Memphis Three”. I tre ragazzi avrebbero commesso i brutali omicidi per compiere un rituale della presunta setta satanica di cui facevano parte. Attraverso una narrazione carica di tensione e pathos, che rimanda a tratti al grandioso Mystic River di Clint Eastwood, il regista racconta un processo che si rivela null’altro che una farsa, la raffazzonata messa in scena di una sequela di prove costruite e compromesse, alimentata dall’assurda ferocia di una comunità pronta a condannare a morte tre giovani sulla base del loro modo di vestire, la passione per l’heavy metal e il sano e naturale bisogno adolescenziale di ribellarsi e fare un po’ di rumore.
La trama, stranota al pubblico americano, si fa portavoce di una questione centrale affrontata da Egoyan. Un nodo inestricabile, un mistero eternamente irrisolto che si pone come riflessione sulla verità – verità sfuggente, irrimediabilmente e volutamente occultata. Nella ricostruzione degli eventi di West Memphis si può solo ragionare per esclusione e assenza di prove, in quanto ogni possibilità di ricostruzione positiva dei fatti è stata intaccata da chi, invece, aveva il compito e il dovere di farla emergere. E di dare senso. Un senso ricercato nelle tante opere dedicate alla vicenda, incentrate finora sulla ricostruzione dell’accaduto, sullo studio di atti processuali, inevitabilmente limitato da una carenza di informazioni. Ed è proprio dinanzi all’impossibilità di indagare ulteriormente la contingenza degli eventi attraverso il linguaggio e i mezzi del documentario, che Atom Egoyan propone il suo cinema. Un cinema classico, composto ed efficace, che offre una possibilità di riflessione attraverso l’indagine legata sì ai fatti, ma anche e soprattutto a una domanda fondamentale dell’esistere: quanto si è disposti a non vedere, quanto male si è disposti a fare, pur di placare la paura essenzialmente umana dell’ignoto?
Accecata dall’orrore per l’omicidio di tre bambini, un’intera comunità ha creduto alle parole di chi offriva una facile risposta immediata, una valvola di sfogo al dolore assoluto e incommensurabile che si era abbattuto sulla città. Incuranti dell’evidenza, insensibili alle conseguenze, confusi dall’occultamento di prove e assetati di vendetta, gli abitanti hanno preferito dedicarsi a un’insensata caccia alle streghe additando come colpevoli tre giovani innocenti. Ragazzi dati in pasto a un sistema ottuso e impietoso che non ha esitato a condannarli: Damien Echols a morte, Jessie Misskelley, Jr. e Jason Baldwin all’ergastolo. Colpevoli in quanto esponenti di una diversità – nell’essere, nell’agire e nel vestire – vista come minaccia alla quiete, apparente e illusoria, offerta dalle “Little Boxes” che costellano la provincia americana. In molti si sono mobilitati per dimostrare l’innocenza dei tre. In primis Ron Lax, interpretato nel film da Colin Firth, investigatore privato che ha deciso di occuparsi della causa senza compenso, perché “anche fossero colpevoli, tre bambini morti sono già troppi”.
Il caso è stato riaperto nel 2007 e nel 2011 i tre sono stati scarcerati, anche grazie all’appoggio di personalità del mondo dello spettacolo che si sono prodigate per la causa. Tra questi Peter Jackson, Eddie Vedder e Johnny Depp.