Damned Summer

Corpi, luci e suoni permeano il radicale esordio di Pedro Cabeleira, capace di rivelare il reale senza mai pretendere di spiegarlo

La cosa più travolgente di Damned Summer (Verão Danado), sia nella subitaneità dell’esperienza visiva che nelle inevitabili speculazioni intellettuali a posteriori, è la sua capacità di rivelare e di restituire il reale fuori da ogni pretesa di traduzione logico-discorsiva. Di costringerci a pensare, per usare un paradosso caro a Deleuze, a ciò che il pensiero stesso nasconde, alla vita, cioè, nel suo flusso sensibile, nel suo svolgimento materico. Mettendo al centro corpo e sensi, partecipandovi, anzi, in prima persona, attraverso un saldo contatto percettivo con il mondo.

Non è un caso che l’esordio di Pedro Cabeleira, giovanissimo cineasta portoghese diplomato alla Escola Superior de Teatro e Cinema di Lisbona, sia stato così chiacchierato all’ultimo festival di Locarno. Il suo è un cinema profondamente moderno e autentico, fatto di una orizzontalità convinta rispetto agli oggetti del filmare, di aperture e incontri, di rispettosa passività, in cui la macchina da presa diviene testimone d’eccezione di una condizione esistenziale specifica e circostanziata, ma non per questo meno universale. Quella dei suoi coetanei, universitari cui politiche di austerity, tecnocrazia e precarietà (professionale, affettiva, ecc., in una parola identitaria) hanno sottratto certezze e sgangherato prospettive. Lasciandoli preda di confusione e sbandamenti, di un abisso di nonsense e noia colmato da psicotropie, promiscuità ed esplorazioni sessuali, svaghi e abbandono al quotidiano.

Autenticità che non rinviene solo da ragioni meramente (auto)biografiche ma che si realizza compiutamente a tutti i livelli, produttivo ed espressivo compresi, aspetti chiaramente concatenati. Il piccolo miracolo di Verão Danado sta proprio nella perfetta compenetrazione di questi tre elementi. Alla conoscenza diretta da parte del regista delle dinamiche che porta sullo schermo, si associa da un lato l’indipendenza del progetto filmico da fonti esterne di finanziamento, e quindi la sostanziale libertà tecnica e creativa, dall’altro la precisa volontà, ribadita dall’autore stesso, di raccontare dall’interno, senza giudizi o intromissioni, la “terza nascita” dei lisbonesi. Affidandosi esclusivamente all’onda sinusoidale (“il cinema deve ricreare l’esperienza del rollercoaster”, delle montagne russe, dice Cabeleira) degli avvenimenti e delle emozioni così come vengono vissute da Chico, il protagonista. Di giorno attesa indolente, di notte euforia edonistica e psichedelica, la marea crescente, il godimento della presenza, della vitalità esuberante, della festa.

Ed è proprio durante i rave cui Chico partecipa e che impegnano gran parte delle due ore di runtime, che cinema e realtà finiscono per coincidere, che immagine e corpo diventano inestricabili, incomprensibili se staccati l’uno dall’altro. Uniti, per sempre, nel segno della cinetica. Come faremo a riconoscere quel tizio che volteggia su se stesso – si chiede Chico – quando domani avrà smesso di farlo? Il movimento va colto finché perdura, attraverso uno sguardo stroboscopico capace di rallentarlo fino ad uno stato (apparente) di quiete, senza arrecare disturbo alcuno al fenomeno stesso. Cabeleira fa suo quello sguardo ed utilizza tutti gli strumenti propri del cinema – luci e sonoro in primis – per dilatare il tempo fino a renderlo potenzialmente infinito. Indefinito. Il tempo del ballerino (o giù di lì), di chi, anche malfermo, instabile, tremolante, continua a vibrare per non spegnersi del tutto.

Ad animarlo non è la volontà di costruire un senso ordinato e lineare, ma, al contrario, la necessità di mostrare l’intensità con la quale un corpo nel pieno delle sue energie fa incetta del mondo sensibile. Perché è quello che fanno i giovani adulti quando a guidarli non è lo spirito apollineo, che s’annega sempre più nella liquidità contemporanea, ma quello dionisiaco. L’unico a consentire ancora una qualche forma di relazione diretta con la realtà, non improntata – è proprio questo il nodo cruciale – ad un irrealizzabile potestà su di essa o all’applicazione di categorie d’orientamento, bensì ad una resa all’ebbrezza.

L’orgia di Verão Danado non è che un baccanale senza più rito propiziatorio, scrollamento dei costrutti che imprigionano l’essere, superamento del principio d’individuazione e ritorno al desiderio puro, pre-razionale. Nel buio della pista da ballo, strafatti, non ci sono più volti, né parole. A contare è lo sfregamento delle carni, il contatto visivo ravvicinato, l’oscillazione del proprio diapason interiore. Durante le lunghissime sequenze delle feste, Pedro Cabeleira rinuncia ad un cinema verbocentrico, esattamente come avviene nella realtà, in cui le frasi, se servono, si sussurrano all’orecchio e ad inondarci è il riverbero delle radiazioni luminose, delle frequenze sonore, delle membra vibranti di desiderio. Ne risulta un’ambiguità di fondo, una enigmaticità in cui a dominare è l’elemento coreutico e coreografico, come in una scena di lotta di un film di fantascienza. “Come fosse Star Wars”, ha dichiarato il regista. Una analogia vertiginosa per un autore che ha dimostrato di possedere una tale personalità da renderci impazienti di vedere il suo prossimo lavoro.

Autore: Domenico Saracino
Pubblicato il 28/01/2018

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