Billy Lynn - Un giorno da eroe
Contro la spettacolarizzazione della guerra, il film di Ang Lee si focalizza sul dramma del singolo soldato e sulla necessità di tornare a percepire la realtà che lo circonda.

Ad occhi spalancati, neanche fossimo nel cinema intessuto di sguardi di Michael Mann. Billy Lynn – Un giorno da eroe è un film di primi piani frontali, sguardi in macchina insistiti che attraverso il 4k 3D dei 120fps rilanciano una riflessione sul rapporto tra rappresentazione e realtà con un inedito senso di iper-visione. O almeno in teoria, considerato che dell’operazione voluta da Ang Lee non può che arrivarci una versione amputata, spuria della sua unicità tecnologica, che ci costringe a vedere in abstracto le ragioni dietro molte delle scelte compositive del film.
Tuttavia Billy Lynn conserva comunque la sua forza, e lo fa grazie ad un personaggio che resta, nel corso di tutto il racconto, spettatore di quella morsa (Joe Alwyn) mediatica che sta plasmando la sua vita. Di fronte allo sguardo timido, confuso, spaventato di Billy, che è prima di ogni altra cosa un soggetto che guarda, si srotola un gioco di rappresentazioni che mescola ricordo e percezione, una sciarada che a volte assume i tratti fantasmatici dell’evocazione emotiva, come se tutto esistesse solo perché Billy, perso nel suo flusso di coscienza, lo possa guardare. La sua però non è una posizione privilegiata, per quanto spettatore Billy è pur sempre un attore al centro del palco, con il regista dietro le quinte che ne manovra movimenti e posizione. Per lui e gli altri soldati della compagnia Bravo l’unico modo che ancora resta per controllare la propria storia riguarda un film che forse si può e forse non si può fare, l’ultimo passo in quel processo di mitizzazione atto a rendere icone i suoi protagonisti. Ma anche questa prospettiva è parte integrante della società dello spettacolo, di quel circolo mediatico che ingloba e riscrive il reale. Meglio fuggire piuttosto, meglio la guerra, quella vera, e quell’ultima scheggia di umanità che in essa è paradossalmente rimasta incastrata.
In molti hanno guardato al film di Ang Lee come ad un’operazione di timido impegno politico, il classico film cerchiobottista che intraprende una strada senza avere il coraggio di portarla fino in fondo. Tuttavia se guardiamo al film oltre la sua veste antibellica, comunque presente, risulta evidente come un’obiezione simile non sussista, in quanto il bersaglio principale del film non è la guerra ma la sua rappresentazione. Ang Lee è ben consapevole di come il conflitto iracheno sia ormai ampiamente storicizzato – non fosse così Billy Lynn sarebbe in grave ritardo sul cinema e sulla Storia – e per questo le critiche concernenti il conflitto sono sì presenti ma non rivestono mai un ruolo chiave. I riferimenti agli interessi petroliferi, all’iniqua distribuzione delle forze sociali al fronte, all’inganno delle armi di distruzione di massa, non assumono mai grande importanza perché sono fatti consolidati e assimilati, tanto dai personaggi quanto da noi spettatori. E Lee ha il pregio di non sminuire tali argomentazioni con retoriche pleonastiche e inevitabilmente anacronistiche. Piuttosto, sulla scia di Flags of Our Fathers, Billy Lynn si scaglia contro la rappresentazione bellica e l’assimilazione mediatica che lo spettacolo opera nei confronti dei suoi eroi, anche se in realtà si tratta di soldati che scoppiano a piangere durante l‘inno nazionale pensando ad un’utopia erotica appena accarezzata e pronta a svanire. Billy, osservatore e motore di una dimensione metacinematografica che va oltre il semplice riferimento al film nel film, è vittima di una macchina che tutto fagocita, assimila, disgrega. Il risultato di tale assorbimento è una realtà che precipita al livello di feticcio, di pura recita, un’infezione performativa che coinvolge tutti i livelli della vita di Billy, dalla nuova dimensione amorosa alla famiglia passando per il contatto, pubblico e privato, con la sua nazione. L’atto più definitivo che si possa immaginare, la morte in battaglia, diventa grazie alla sua ripresa accidentale uno spettacolo totalizzante di fronte al quale resta una sola via di fuga. Il ritorno in guerra. Il ritorno in Iraq assieme ai compagni della squadra Bravo, ultimo bastione di umanità di fronte l’avanzata del simulacro e i tentativi di colonizzazione spettacolare del tycoon incarnato da Steve Martin. In un panorama desolato e disumanizzato, questa è l’unica azione umana, emotiva, vera, che resta da fare. Perché solo la guerra è reale e non la sua rappresentazione, ma soprattutto perché solo nella fedeltà e compagnia dei suoi commilitoni Billy può ritrovare la sincerità di un’emozione non contraffatta.