Autopsy

Un claustrofobico e riuscito thriller paranormale, tra incubi del passato e violenza di genere

Dalla natura incontaminata di boschi e fiordi all’atmosfera opprimente di una sala d’obitorio il passo non è certo breve. Così come non è da poco lo scarto che intercorre tra un piccolo e inventivo mockumentary norvegese e un horror tradizionale pienamente calato nelle logiche produttive statunitensi.

Eppure, a sei anni di distanza dalla rivelazione di Troll Hunter, è un André Øvredal in gran forma quello che torna al mondo del soprannaturale con Autopsy (The Autopsy of Jane Doe, il più articolato titolo originale), un prodotto per molti versi agli antipodi del precedente ma, allo stesso tempo, la conferma di un talento e di uno sguardo decisamente peculiari.

Abbandonati i grandi spazi, le foreste e gli enormi e mostruosi esseri che le abitavano – senza però perdere nulla del proprio tocco – è verso un orrore ben più claustrofobico e strisciante che si sposta Øvredal, mettendo in scena un male che ha le sue radici non più nella tradizione popolare bensì nel rimosso e nelle colpe di un’intera società.

Con l’irruenza di una sequenza iniziale che si porta dietro un mare di suggestioni e aspettative, il regista norvegese ci getta nel bel mezzo di un mistero destinato a dipanarsi per tutto il corso del film.

A chi appartiene il cadavere trovato in quella sanguinosa scena del crimine e portato dallo sceriffo nel freddo e asettico obitorio del dottor Tilden (Brian Cox) e di suo figlio Austin (Emile Hirsch)?

Di chi è quel corpo di ragazza candido, bellissimo e, a prima vista, perfettamente intatto, che ben presto rivelerà ai due tutto l’orrore celato al suo interno ?

É un puzzle fatto di ossa e di carne quello che Øvredal mette in scena durante un’autopsia minuziosa ed esasperata che non risparmia niente, nella pornografica esaltazione di viscere, organi e sangue, fino alla discesa nell’irrazionale, nella follia, nel terrore.

Una favola nera di violenza e prevaricazione, Autopsy, di corpi sezionati, martoriati e abusati, con tanto di bella addormentata da salvare o, forse, da dannare per l’eternità.

Attraverso la fascinazione necrofila e distruttiva esercitata da quel corpo attorno a cui tutto ruota, muore e rivive, il regista rivela, pezzo dopo pezzo, una vendetta dal sapore arcaico dove i peccati dei padri ricadono sui figli e il cadavere diviene simbolo del rimosso, la colpa personificata di un mondo di uomini che continuano a odiare le donne.

Con la perizia e la freddezza dei suoi anatomopatologi, Øvredal immerge la sua macchina da presa nelle geometrie soffocanti dell’obitorio, dissezionando le scene con un rigore impietoso, tra inquadrature fisse, lenti ralenti e il persistente sguardo in macchina di quella presenza inerte che, con i suoi primissimi piani, monopolizza lo schermo, fagocitando l’attenzione.

Autopsy non è così altro che il lento disvelamento di un mistero, un thriller claustrofobico e paranormale che fa dell’unità di tempo e spazio, nonché della bravura trascinante dei suoi due interpreti principali, i suoi punti di forza, garantendosi un valore che nemmeno gli scontati soprassalti emotivi, o una parte centrale a tratti confusionaria e fin troppo sbrigativa, possono minare seriamente.

Un piccolo, solido horror decisamente al di sopra della media del genere che, nella sua semplicità, sa ancora riflettere sulle infinite declinazioni del male, sul controverso, sottile confine che divide vittime e carnefici.

Autore: Mattia Caruso
Pubblicato il 08/03/2017

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