Crialese torna a fare cinema dopo 11 anni da "Terraferma" per raccontare la sua storia autobiografica. Il risultato è un melodramma che cerca l'urgenza dei sentimenti ma è troppo vicino ai personaggi per inquadrarne la complessità emotiva.
Schrader trova il punto conclusivo della sua trilogia sul cinema trascendentale e si concede un momento di straordinaria libertà espressiva, in cui non solo teorizza sui presupposti teologici dei propri maestri ma guarda con commozione alla propria carriera.
Guadagnino fa ancora, come se fosse sempre la prima volta, un "critofilm": questa volta l'oggetto in analisi è il paesaggio americano degli anni 80, ricettacolo di rimossi culturali e teatro di spettri che attendono solo forma corporea.
Weerasethakul riconfigura l'esperienza percettiva cinematografica facendo slittare lo specifico filmico dalla dimensione ottica a quella uditiva: il risultato è l'incontro sensoriale con gli strati abissali della memoria.
Amalric adatta Simenon e trova nelle rifrazioni chiaroscurali della camera azzurra la sua ossessione per il femminino e per la trasposizione in immagine della parola scritta.
Aïnouz cerca di inquadrare di nuovo la vita invisibile di un'identità: questa volta la propria, divisa tra Brasile e Algeria, padre e madre, memoria e rimosso, passato e presente.
Desplechin continua a giocare con le maschere e gli pseudonimi per cercare di raccontare se stesso: questa volta scivola nella pelle di un Philip Roth esiliato e accerchiato dai fantasmi del proprio desiderio.
Le immagini di Guillaume Brac tengono insieme sentimentale e sociale in un tuttotondo atmosferico che rende giustizia ai corpi delle nuove generazioni.
Lasciandosi implicare dagli eventi di una città, Alexandre Koberidze compone e scompone una sinfonia urbana che è elogio e testimonianza della vita delle persone e degli oggetti.