Zombie Massacre 2: Reich of the Dead

Boni e Ristori affrontano la guerra senza possibilità di svincolarsi dagli zombi

La dittatura hitleriana è l’evento storico che più facilmente si lascia identificare con il male assoluto. Il nazista diventa, ancor prima del termine della Seconda Guerra Mondiale, l’emblema del cattivo. Il suo essere feroce e allo stesso tempo anonimo tassello di un plotone lo rende accostabile allo zombi. Il connubio tra esercito del Reich e morti viventi è presente in diverse pellicole e non può oggi essere considerato una novità. La sostanziale differenza tra Zombie Massacre 2: Reich of the Dead e i vari Shock Waves, Zombie Lake, Oasis of the Zombies e via elencando, risiede nella volontà di riassegnare al mostro il proprio ruolo di vittima. Non è necessario tirare nuovamente in ballo il voodoo perché il morto che cammina torni a essere l’arma inconsapevole dell’antagonista. Come da tradizione, dietro l’orrore fisico si nasconde la mente di uno scienziato pazzo. Nel caso del film di Luca Boni e Marco Ristori si tratta nientedimeno che del doktor Mengele, interpretato dal veterano Dan van Husen. Il medico passato alla Storia come Todesengel, ovvero l’angelo della morte, apre e chiude il racconto mentre protagonisti di tutto il corpo centrale sono quattro soldati americani dispersi in un territorio non ben definito, un purgatorio in cui riflettere sul proprio passato senza possibilità di ritorno. Il rimando alla mitologia cristiana è ribadito dalle continue immagini sacre inquadrate nel film e dalle frasi di tutti i personaggi che confidano in Dio e nelle preghiere. L’accostamento tra il secondo conflitto mondiale e una ricerca della volontà divina nell’odio terreno richiama la monumentale opera di Terrence Malick, La sottile linea rossa. Similmente al regista statunitense, anche i due toscani descrivono la guerra come attimi di vita sospesa. Il nemico, sia esso l’esercito tedesco o l’orda di zombi, è spesso assente. A differenza di molto horror e più in linea con The Thin Red Line, la storia si svolge interamente alla luce del sole, ribadendo la volontà di Boni e Ristori di non dirigere tanto uno splatter quanto un war-movie. Difatti i ricordi a rallentatore del soldato Will Adams, impersonato dal bravo Andrew Harwood Mills, fanno leva su una dolcezza agli antipodi della paura e sono equiparabili, specie nel loro immaginario bucolico, al flashback del soldato Witt nell’opera malickiana.

Immagine rimossa.

Nonostante il titolo, Zombie Massacre 2 non ha nulla da spartire con il primo capitolo, se non la necessità di inserire i morti viventi in quanto lavoro su commissione e alcune peculiarità stilistiche tipiche della coppia di registi. Il film del 2013 era ambientato nel presente (o in un futuro prossimo) distopico e gli zombi erano dei contaminati più in linea con la loro rappresentazione grafica contemporanea. Viceversa, nel secondo episodio i non morti riacquistano un aspetto cadaverico, mentre i vivi perdono qualsiasi connotazione goliardica a favore di una maggiore drammaticità. Ad accumunare il dittico resta l’effetto straniante dei dialoghi. La prolissità che nel primo Zombie Massacre appariva farsesca, nel secondo caso contribuisce a creare un’atmosfera onirica. Al pari di un sogno, lo scambio di battute non segue la logica del botta e risposta. Le frasi ad effetto appaiono come enunciati a sé stanti e i toni pacati degli interpreti, complici anche i costanti e uniformi tappeti musicali, trascinano la visione da uno stato consapevole a uno inconscio, dove il film non è più seguito ma percepito. Non si comprende ad esempio perché un soldato dica al commilitone accanto «Se non stabilisco un contatto visivo entro trenta secondi va a vedere che succede», sottolineando che «Le nostre vite sono nelle tue mani», e dopo oltre tre minuti di film i due personaggi siano ancora fermi nello stesso punto in un rimando al teatro di Beckett che qui si fa cinema dell’assurdo. Volendo in maniera semplicistica dividere la settima arte in due macroaree, si potrebbe affermare che l’intrattenimento è generalmente caratterizzato da uno sviluppo narrativo lineare il quale, in quanto comprensibile a tutti, lo rende popolare; al contrario nel prodotto d’autore lo storytelling è subordinato a una ricerca introspettiva, esistenziale e artistica che sconfina sovente nell’ermetismo. Fermo considerando che questa classificazione è solo teorica e nessun film si trova totalmente da una o dall’altra parte, ciò permette di tracciare un cammino dei registi che da narratori nello Zombie Massacre del 2013 aspirano al ruolo di autori nel 2015, senza per questo rinunciare alla loro autoironica e un po’ adolescenziale immagine con cui da sempre si presentano al pubblico.

Autore: Mattia De Pascali
Pubblicato il 17/07/2017

Articoli correlati

Ultimi della categoria