Zanj Revolution

Zanj Revolution è un film che parte dal fallimento di un popolo, di un territorio, della Storia, e cerca nell’erranza e nella dispersione dei corpi il suo fondamento

Sono sempre in movimento i personaggi di Tariq Teguia, destinati a vagare senza direzione alla costante ricerca di un obiettivo che possa offrire un senso al loro stare al mondo, oppure, più concretamente, una via di fuga da una realtà asfissiante – che ha quasi sempre il volto di Algeri. Ici et ailleurs, come il film di Godard citato in una delle sequenze più scopertamente teoriche: vivere il presente e sognare l’altrove (e/o la rivoluzione), che può avere le fattezze di Roma, meta desiderata dai protagonisti di Roma wa la n’touma che si perdono per i vicoli di Algeri nel tentativo di scappare dal proprio paese; dell’entroterra algerino di Gabbla, campo di lavoro di un topografo che vede la sua squadra decimata dai fondamentalisti islamici, oppure, come in questo caso, del lungo lembo di terra che unisce i paesi arabi, dal Maghreb al Mashreq iracheno, dove ha avuto luogo dodici secoli fa la rivoluzione contro il califfato ad opera degli Zanj, schiavi neri africani. Una nuova meta in grado di rimettere in circolo le forze e soprattutto fare i conti con il fallimento dell’utopia panaraba, infranta nel 1982 in Libano. “Misurare la sconfitta, sperare di nuovo”: è questo il senso ultimo del tragitto che Ibn Battuta, giornalista freelance algerino, compie attraverso il Medioriente. Un lungo viaggio nel passato di un popolo che sembra aver smarrito qualsiasi fiducia nel futuro, perché schiacciato da nuove e più potenti forme dittatoriali, come quella del mercato e del profitto, che ha cancellato il volto delle città sotto un profondo strato di cemento. Dal sud dell’Algeria alla Grecia, da Beirut passando per il campo profughi di Shatila fino all’Iraq, sognando la Palestina: ipotesi di una nazione mai realizzata che solo lo sguardo della macchina da presa può contenere superando diaspore ed esili.

Ma non ci si deve far ingannare dalle apparenze: il cinema di Teguia è politico non tanto nei contenuti quanto nella forma, come estrema sintesi di un discorso teso a svincolarsi tanto dai dogmi del cinema hollywoodiano, così come da quelli non meno imperialistici di certo cinema d’autore europeo, per riaffermare la singolarità delle storie e dei volti che mette in scena. Il suo sguardo (est)etico lo ritroviamo nelle scelte di montaggio che lavorano in alcuni casi di sottrazione e più spesso nelle sovrimpressioni di immagini conflittuali. E poi nei tagli delle inquadrature, che ricalibrano di continuo la posizione del soggetto rispetto all’ambiente, ora schiacciato in prospettive prive di profondità, ora confuso con il territorio in campi lunghissimi che quasi lo cancellano. Sebbene influenzato da Godard, di cui ritroviamo qui certi stilemi come la sfasatura tra immagine e suono e il gioco cromatico, lo sguardo di Teguia appare liberato dalle derive più intellettuali e astratte, come se fosse riuscito a restituire allo stesso cineasta franco-svizzero quella concretezza che da tempo sembra aver smarrito. I manierismi estetici che almeno in parte hanno contraddistinto, sia pur positivamente, i due film precedenti di Teguia trovano qui un’esigenza e una sincerità effettiva che gli permettono di andare oltre qualsiasi definizione genericamente d’autore, per abbracciare un cinema alla deriva che fa dello smarrimento, sensoriale e fisico, il suo discorso centrale. Così anche l’andatura ondivaga e indefinita dell’agire si allontana da qualsivoglia consapevolezza manierata per farsi discorso autentico di un girare a vuoto che non conosce risposte, neanche quelle del dubbio. È lo stesso movimento a generare l’andatura, come un riflesso involontario, conseguenza inevitabile della ricerca.

Zanj Revolution è un film che parte dal fallimento – l’obiettivo è avere la dimensione della sconfitta – di un popolo, di un territorio, della Storia, e cerca nell’erranza e nella dispersione dei corpi il suo fondamento. Tanti spettri si aggirano per il mondo arabo e l’Europa: quelli di una generazione alle prese con le ingiustizie del proprio tempo e con l’esilio. L’unica soluzione possibile risiede allora nella consapevolezza che anche la memoria non conta niente senza soggetti coscienti della realtà che vivono tutti i giorni. Perché se non esistono più tracce concrete di quell’antica rivoluzione, ci sono tuttavia gli uomini e le donne che abitano ancora quella terra e che resistono alla violenza e all’oppressione dei fondamentalisti islamici. Il prezzo da pagare per i personaggi è ancora una volta lo smarrimento, il carcere o la morte ma con un decisiva differenza rispetto al passato: questa volta il ritorno è possibile. Un sentimento di speranza iscritto nel nome del protagonista, che rimanda al famoso viaggiatore marocchino del 1300, conosciuto come il Marco Polo d’oriente, e sancito già nella primissima inquadratura che mostra la sua lenta e faticosa emersione dal bianco accecante del deserto (quello algerino del precedente Gabbla?). Nella lotta costante tra uomo e territorio, che nei precedenti film aveva visto la sconfitta del soggetto, per una volta è il primo ad uscire, almeno parzialmente, “vincitore”. La vittoria risiede non nell’approdo a chissà quale verità ma nella mera sopravvivenza, che permette di superare indenni le frontiere, varcare le soglie del visibile fino a riconquistare lo spazio urbano e a rilanciare i percorsi di lotta dei giovani algerini del sud, che riverberano nel cuore della cultura occidentale attraverso il corpo e la voce di un’ostinata ragazza palestinese.

Autore: Giulio Casadei
Pubblicato il 15/10/2014

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